La tecnologia è un bel problema per il cinema. Quando sono arrivati i cellulari è diventato molto più difficile far perdere i personaggi. Chissà come saranno gli inseguimenti con le auto a guida autonoma. Alla base della sceneggiatura di Gioia mia c’è l’esatto opposto: la disconnessione.
La trama
Il piccolo Nico è costretto a passare un’estate dall’anziana zia Gela che vive in Sicilia. Niente telefoni, videogiochi o wi-fi. Un altro mondo, fermo, antico, pieno di superstizioni e costruito su una comunità stretta. Con gli occhi e le mani libere incontra il mistero: l’edificio è veramente popolato di spiriti e angeli, come sostengono le donne del posto? Ma soprattutto chi è veramente questa zia la cui solitudine, ormai accettata e diventata compagna di viaggio, interroga il bambino che vi riconosce la sua?

È un bel periodo per le cineaste italiane. Il talento di Laura Samani (Piccolo corpo) è stato confermato con Un anno di scuola, passato a Venezia e presto al cinema. Le sorelle Valentina e Nicole Bertani hanno presentato quest’anno a Locarno il loro bellissimo Le bambine dove, contemporaneamente, si scopriva il talento di Margherita Spampinato.
L’abbondanza dei ricordi
Il suo Gioia mia è un’opera prima di grande capacità cinematografica. La trama è apparentemente esile. Eppure nelle sequenze la regia riesce a dipingere tanta vita. La figura della zia è un unicum nel cinema italiano. Impossibile svelare il perché, senza rovinare il gusto della visione. Il lavoro fatto dall’attrice Aurora Quattrocchi sulle cicatrici del passato che entrano a far parte del carattere è, una volta arrivati al colpo di scena, un momento incredibilmente toccante.
L’estate di Nico serve a diventare grandi, a innamorarsi per la prima volta, ad abbandonare un legame fin troppo stretto con la babysitter di città. C’è poco da fare, quando le immagini sono usate bene evocano ricordi e sensazioni. Guardando questo film ci si ritrova immersi in un’abbondanza di ricordi che non abbiamo mai vissuto. Questi, creati dal cinema, che fanno riaffiorare quelli reali dei primi giorni di adolescenza di ciascuno. Quella in cui era bello perdersi, senza distrazioni tecnologiche.










