Il ritorno di Jafar Panahi, regista iraniano nel mirino del regime, va considerato, come sempre, di un evento. Non solo perché ha vinto Cannes ma perché è un miracolo che sia riuscito a realizzare Un semplice incidente.
Prodotto come sempre in clandestinità e con pochi mezzi racconta di un uomo che sembra riconoscere, dal cigolio della protesi di un cliente, l’aguzzino che l’aveva torturato in carcere. Raduna gli altri dissidenti, vittime del regime e del durissimo carcere. Insieme rapiscono l’uomo.
A quel punto però che fare? Costui nega. L’unica prova che hanno è quel suono, non avendo mai potuto vedere in faccia il carceriere. Come farlo confessare? Torturare il torturatore e diventare come lui o fidarsi e lasciarlo andare? Come si spezza il male?
La giustizia potrà mai esserci se, nel dubbio, si arrenderanno? E se tornasse a perpetrare altre torture? Questa settimana il cinema ci racconta una verità dell’arte attraverso due film agli antipodi. Per realizzare un film basta avere la voglia, i mezzi, i “geni” giusti, ma questo non lo rende un buon film.
Invece i limiti, la clandestinità, il rischio e le sanzioni politiche non sono un limite se gli artisti hanno qualcosa da dire. Se c’è l’urgenza, anche senza mezzi, si creano capolavori.


