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Il lockdown ha incrementato ovunque l’uso della tecnologia permettendo anche a Mariagrazia Zambon che si trova ad Ankara, in Turchia, di sentirsi in comunione con le “sorelle” dell’Ordo Virginum

di Mariagrazia Zambon

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Mai avrei pensato che nel massimo periodo di isolamento avrei potuto vivere una così grande prossimità con persone a me molto distanti fisicamente, ma altrettanto vicine grazie al mondo digitale. Ebbene sì, mentre il Covid-19 ha infatti stravolto tutti gli aspetti della nostra quotidianità, dalla socialità all’apprendimento, dal consumo all’intrattenimento, generando forti disagi; mentre abbiamo vissuto in tutto il mondo le conseguenze drammatiche dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus: morti, povertà e situazioni di disagio e di profonda solitudine, il lockdown ha stimolato ovunque un grande incremento dell’uso della tecnologia e tra i tanti vantaggi ha permesso anche a me, che mi trovo ad Ankara, in Turchia – a 2500 chilometri di distanza da Milano – di poter sentirmi in comunione con le mie “sorelle” dell’Ordo Virginum e poter condividere con loro fatiche, desideri, preoccupazioni e speranze affidando tutto alla preghiera comune.

Mi era già capitato di partecipare ad incontri e conferenze in videochiamata con gruppi che vivono lontani, o di dare lezioni a distanza su piattaforme online, ma ho avuto anche la gioia di poter condividere momenti di preghiera comunitaria con questa modalità: è stato bello scoprire che si potevano recitare i vespri e il rosario insieme.

Poi c’è stato proposto di vivere così anche il ritiro quaresimale, arrivando a fruttuosi scambi di vita e di fede, di cui ringrazio ancor oggi tutte le partecipanti per aver arricchito con i loro interventi la mia vita spirituale e avermi dato ulteriori spunti di riflessione.

 

Molto utile l’idea di inviarci via email la meditazione una settimana prima, in modo che tutte potessero trovare il momento giusto per ascoltarla e poi ritagliarsi il tempo per rifletterci e pregarci sopra.

La meditazione dal nostro delegato don Davide Milanesi, inviata tramite YouTube, ci invitava a riflettere a partire da una parola che ci aveva lasciato l’Arcivescovo nell’incontro a giugno 2020: SPERANZA.

Come si può ben immaginare, dietro questa parola si apre un universo e quindi sono state semplicemente lanciate delle tracce per il lavoro e la meditazione personale.

Accanto all’invito a fare attenzione a cosa risuona dentro di noi quando sentiamo la parola speranza, don Davide ha legato la parola speranza al tema della PROMESSA, facendoci riflettere sulla storia di Abramo e Sara.

 

La Promessa sta all’inizio di tutta la vicenda personale del Padre della fede, che diventa poi anche la storia del popolo di Israele. La Promessa è ciò che mette in movimento tutto, ma a ben guardare Sara non l’ha mai ascoltata direttamente eppure viene coinvolta in prima persona in quanto moglie di Abramo: la promessa cade sulla vita di questa donna in modo indiretto e sicuramente accende anche in lei la speranza, benché lei non l’abbia mai ricevuta di persona. I fatti ci dicono che a questa promessa terrà moltissimo, tanto che sarà disposta a custodirla e a crederci anche pagando prezzi molto alti, attraverso tortuosità e deviazioni “poco ortodosse”, imposte dalla cultura e dal marito.

Tema molto interessante e provocante.

Mi ha fatto riflettere molto.

Se è vero che si corre il rischio di essere un po’ maldestri quando si vogliono anticipare i tempi di Dio e i nostri stratagemmi complicano ulteriormente la situazione, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe non cerca donne e uomini perfetti, puri, virtuosi. Chiede solo che la sua benedizione possa attraversare lo spessore della loro esistenza e trovare un luogo dove potersi realizzare per tutta l’umanità.

Le promesse di Dio sono belle, danno speranza, sono cariche di vita e di futuro, ma sembrano anche impossibili; la realtà umana con i suoi limiti e la sua fragilità appare come un ostacolo alla loro realizzazione. La vita richiede attesa, pazienza, lotta, spogliazione, affidamento.

Anche e soprattutto se di questa promessa non si è i diretti “portatori”, ma si è chiamati ad esserne i CUSTODI. Penso a Sara, ma penso ancor più a san Giuseppe.

Del resto non è proprio questo il cuore della nostra vocazione di consacrate nell’Ordo Virginum? Essere donne che vivono in una vita “comune”, fatta di luci e di ombre, di fatiche e di gioie, la speranza nella promessa più grande e più bella che va oltre le nostre singole vite ma che passa attraverso di noi e che siamo chiamate a custodire con e per il Popolo di Dio, la sua Chiesa: “la venuta del Regno”!

Penso a quante volte ognuna di noi – nell’ambito in cui vive, io qui tra la piccola minoranza di cristiani, ma anche nelle corsie di un ospedale o tra i banchi di scuola (virtuale o no), in tribunale, in oratorio o nella giunta comunale, tra anziani o giovani e bambini, tra chi soffre, è preoccupato, sfiduciato o solo, disprezzato o tradito, povero o abbandonato – è chiamata ad essere portatrice della speranza legata a questa Promessa da raccontare, custodire, invocare: “la venuta del Regno di Dio”.

Certo, nella sua manifestazione finale, quando la morte sarà sconfitta e non ci saranno più né lacrime né terrore né violenza, ma anche nell’ oggi, giorno dopo giorno, attraverso la misericordia del Padre, la fratellanza di Gesù e la Grazia dello Spirito Santo.

Abramo e Sara non si rassegnano all’ “ormai è troppo tardi” e continuano a credere alla promessa di Dio, anche quando è solo una piccola fiammella di speranza nel buio.

Ecco allora che si intuisce come anche nella nostra consacrazione c’è Dio che promette a noi che in quel proposito di verginità troveremo la pienezza di vita, la gioia per la nostra vita e che dentro alla nostra consacrazione non ci siamo solo noi, ma che c’è Dio che promette e si impegna con noi e, tramite noi, con tutte le persone che ci affida.

 

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