«Il nostro lavoro è una reale condivisione del lavoro stesso di Gesù Cristo e diventa luogo di salvezza e di santificazione per noi e per gli altri». È questa la conclusione della relazione che l’Arcivescovo emerito di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, ha tenuto questa mattina al Family 2012. Il tema a lui affidato era infatti “La famiglia e il lavoro in una prospettiva di fede”. Un intervento lungo e ricco di citazioni bibliche e di testi del Magistero, dalla Rerum Novarum alla Gaudium et spes, dalla Deus Caritas Est alla Caritas in veritate.
Già i primi capitoli della Genesi parlano di lavoro, tema ripreso anche nel Nuovo Testamento. Se da una parte Tettamanzi teme che «famiglia e lavoro finiscano per essere considerati in un’ottica di pura utilità», dall’altra non ha dubbi che «amare e lavorare, assieme al fare festa, sono davvero gli elementi essenziali di una vita familiare».
Ed è la stessa esperienza umana a dirci «che non è affatto vero che siano il profitto e la massima utilità economica a muovere l’agire dell’uomo: la vera e più esplosiva motivazione è la carità, con l’energia che ha di suscitare e sostenere relazioni nuove, fraterne appunto, in ogni famiglia, in ogni impresa e nell’intera grande famiglia».
Insiste sull’importanza della «gratuità» e sulla «responsabilità educativa», convinto che certi valori è innanzitutto la famiglia a trasmetterli ai figli. È lei che può diffondere anche «la cultura del lavoro» e «la libertà responsabile». Ma in tutto questo come si colloca la fede?
«Il rapporto famiglia-lavoro racchiude una dimensione etica – chiarisce l’Arcivescovo emerito -, ossia un aspetto di grazia e di responsabilità di cui sono segnate, secondo il disegno di Dio e le esigenze più profonde del cuore umano, le realtà della famiglia e del lavoro». Come a dire che l’etica non è «un freno né un ostacolo, ma spinta a realizzare in modo sempre più pieno la vera umanità della persona in se stessa e con gli altri».
Ma gli uomini e le donne di oggi possono guardare a un modello: Gesù di Nazareth, che per 30 anni ha lavorato con suo padre che era «uomo “giusto”, umile, nascosto, dedito alla sua famiglia». In lui la «normalità coincide con la quotidianità», che è anche «ripetitività, stanchezza, fatica, sacrificio, impegno» e «all’insegna del senso del dovere!».
Quello di Gesù era un lavoro di falegname o fabbro, spiega Tettamanzi, e comunque un lavoro manuale. «Questo ci insegna che ogni lavoro, anche quello manuale e il più umile e il più stressante, ha dignità umana, in quanto rimanda alla persona coinvolta del lavoro, in obbedienza alla volontà ordinaria del Creatore».
Il relatore parla inoltre di «ingiustizia scandalosa» e di «leggi di mercato» e si domanda: «Forse che il tempo, le forze fisiche e psichiche, le responsabilità dell’ultimo lavoratore valgono meno del tempo, delle forze e delle responsabilità di un alto dirigente di finanza o di industria o di governo o di partito o di sport?». Occorre equità e regole per tutti.
E conclude: «Non c’è famiglia senza lavoro» perché «non è possibile costituirla e farla crescere nei valori e secondo le esigenze ad essa peculiari». E la questione «non è solo economica», perchè «il lavoro è inserimento attivo della società, è partecipazione responsabile all’edificazione della città».
Morandé Court: opportunità e precarietà
«Il lavoro serve alla famiglia per creare il sostentamento materiale della vita, senza cui non ci può essere sviluppo umano. Ma esso ha anche la funzione di educare i bambini nella verità e nel bene». A proporre questa sottolineatura è stato il sociologo cileno Pedro Morandé Court, nella seconda relazione della mattinata. Morandé Court ha ricordato il senso del lavoro «nella sua dimensione oggettiva, relativa alla produzione di beni, e anche soggettiva, costitutiva della persona che attraverso la sua creatività può trasformare il mondo per soddisfare le esigenze delle persone». I cambiamenti sociali in corso in questo periodo di crisi globale «rappresentano nuove opportunità per la famiglia e la società, ma anche nuovi rischi di precarietà». Fra i segnali positivi, è da annoverare «il sempre maggiore ingresso delle donne nel mondo del lavoro», mentre fra quelli negativi si registra «la crescente fragilità del matrimonio, proprio in ragione delle difficoltà legate all’attività professionale».
Il lavoro porta inscritta in sé una dimensione di dono, in quanto «è la risposta oggettiva che gli esseri umani danno al dono della vita e a tutti gli altri doni che ricevono dai loro antenati, dai loro genitori, dalle loro famiglie e dai loro maestri». Una sottolineatura specifica riguarda la condizione lavorativa dei giovani, da tutelare come ulteriore segno di speranza per la famiglia e la società. Oggi bisogna ripensare il rapporto tra lavoro e famiglia, nell’ottica di un nuovo orizzonte culturale: «Non si tratta soltanto di ottenere il reddito necessario per la sopravvivenza e lo sviluppo della famiglia», ma anche di «ripensare le relazioni tra i vari membri della famiglia» anche attraverso l’attività professionale, in modo da tutelare la specificità di ciascun membro di questo nucleo sociale fondamentale.
Laffitte: «Il lavoro include un orientamento verso gli altri»
Prima dell’intervento del cardinale Tettamanzi aveva preso la parola monsignor Jean Laffitte, segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia: «La famiglia è il luogo dove il lavoro conserva le sue dimensioni, quella personale e quella sociale: solo un lavoro degno consente alla famiglia di avere la sicurezza necessaria perché ciascun membro della famiglia possa diventare sempre più protagonista della vita familiare, iscritta nel disegno divino del Creatore». Ma qual è il senso sociale del lavoro oggi? «L’antropologia cristiana – ha ricordato mons. Laffitte – rifugge la tentazione riduttrice dell’antropologia contemporanea che pensa l’uomo solamente come individuo». È nella famiglia «in quanto esperienza concreta» che «il lavoro riesce a conservare tutte le due dimensioni costitutive, quella personale e quella sociale». Soltanto un lavoro degno «consente alla famiglia di avere la sicurezza necessaria perché ciascun membro possa diventare sempre più protagonista della vita familiare, iscritta nel disegno divino del creatore». Secondo monsignor Laffitte l’attività professionale ha un’altissima valenza sociale: «Non esiste un lavoro che non include un orientamento verso gli altri».