Sirio 26-29 marzo 2024
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Intervista

L’Arcivescovo: «Noi, popolo della speranza in cammino»

Dialogo sull’anno pastorale appena concluso e il prossimo: dai Gruppi Barnaba («lavorano per capire il territorio e trovarvi strade di Vangelo») alla Proposta 2022-23 («c’è bisogno di una preghiera intensa»)

di Annamaria BRACCINI

17 Luglio 2022
L'Arcivescovo in occasione di una celebrazione

Come ogni anno pastorale, anche il 2021-2022, per e nella Chiesa ambrosiana, è stato ricco di eventi, iniziative, itinerari intrapresi sotto la guida dell’Arcivescovo. Proprio con lui approfondiamo il senso di alcune realtà importanti. A partire dai Gruppi Barnaba e dal cammino verso le Assemblee sinodali decanali (vai allo speciale), nel contesto di quella più ampia sinodalità che sottolinea papa Francesco.

Quale è il significato dei Gruppi Barnaba?
I Gruppi Barnaba vogliono rispondere a due domande. La prima relativa a cosa accada nel nostro territorio. Non vogliamo accontentarci della cronaca che spesso mette in evidenza soltanto fatti clamorosi. Per capire cosa succeda, invece, il Gruppo Barnaba va a incontrare le realtà del territorio, dialoga, ascolta. Abbiamo così un’immagine edificante di quanto bene c’è, di quante persone si impegnino per affrontare e rispondere alle necessità. Inoltre i Gruppi rispondono all’interrogativo su dove portare il Vangelo. Noi siamo abbastanza attrezzati per condividerlo nella comunità cristiana, nelle istituzioni ecclesiali, ma un po’ più imbarazzati e, forse, intimiditi di fronte al contesto più ordinario, là dove la gente vive, soffre, fa festa. Il Gruppo Barnaba, dunque, cerca di offrire materiali per capire il territorio e per trovare strade di Vangelo.

Un altro cantiere aperto è la Visita pastorale in corso a Milano (vai allo speciale, ndr), che riprenderà a ottobre dal Decanato Turro. Giunti a metà del cammino, come sta andando?
Credo che stilare un bilancio sia molto difficile, perché la città è diversificata. A me sembra di essere come un mendicante che chiede la carità di una testimonianza e che, visitando le singole comunità, raccoglie con stupore la testimonianza di quanto bene si custodisce nelle nostre comunità. Mi sembra anche di essere come quella donna del Vangelo che ha perso la dracma e la cerca affannata. Ho, cioè, l’impressione di una Chiesa che ha operato con molto impegno, e che, tuttavia, sente di aver perso qualcosa, di avere un senso di insignificanza rispetto alla mentalità corrente. Molta gente ci chiede di fare, di offrire servizi, ma forse è meno interessata all’essenziale della missione della Chiesa, cioè l’annuncio di Gesù crocifisso, morto, risorto, principio di speranza affidabile.

Nella Festa delle famiglie (leggi qui, ndr) lei ha paragonato la famiglia a un anello che unisce le generazioni. Come vede la situazione dei ragazzi all’interno delle famiglie?
I ragazzi percepiscono con particolare intensità le situazioni familiari. Dove la famiglia è unita, dove i genitori sono capaci di perdonarsi e di camminare insieme, gli adolescenti trovano un punto di riferimento rassicurante. Dove ci sono tensioni e forme di violenza, risentono della fragilità delle famiglie stesse. Perché gli adolescenti escano dal disagio, occorrono adulti che rivelino la vita come percorso promettente.

Sono state tante le celebrazioni in cui si è pregato per la pace, sostenendo anche le comunità ucraine presenti in Diocesi (vai allo speciale sulla guerra, ndr). Il Consiglio delle Chiese cristiane di Milano ha invitato a pregare insieme. Per lei cosa ha significato tutto questo?
Il legame con la popolazione dell’Ucraina è antico e anche per questo c’è stata una particolare sensibilità e una straordinaria generosità da parte degli ambrosiani verso questo popolo tribolato. Abbiamo sperimentato che la preghiera unisce, mentre la storia e le memorie talvolta dividono; che l’ignoranza induce a disprezzarsi gli uni gli altri, mentre la conoscenza reciproca induce a stimarsi; che l’avidità induce a saccheggiare i Paesi degli altri, mentre la solidarietà consente di costruire una terra in cui si possa abitare tutti. Ci siamo trovati a pregare tra diverse confessioni proprio per sottolineare lo sconcerto per una guerra che contrappone popoli di antica tradizione cristiana e per dire il senso d’impotenza di fronte a spettacoli di morte e a distruzioni incalcolabili. Ma abbiamo pregato insieme anche per dire la nostra fede: nei momenti della tragedia, Dio opera, chiama, converte. Noi siamo il popolo della speranza, perché riteniamo che il Regno di Dio non è di questo mondo, ma è presente in questo mondo con segni che sono promettenti per la salvezza dell’umanità.

Perché la Proposta pastorale Kyrie, Alleluia, Amen è interamente centrata sulla preghiera?
Sento che questo sia un punto determinante per una Chiesa che nasce dall’Eucaristia. Queste tre parole che ho scelto hanno una formulazione un poco enigmatica, ma sono tipiche della nostra celebrazione liturgica e servono per evidenziare che, se la Chiesa non si lascia plasmare dal Mistero che celebra, rischia di fare molte cose buone, ma di non custodire il dono che la rende viva, lieta, che l’unisce in un segno di speranza per l’umanità. A me sembra che la nostra Chiesa, così attiva, così capace d’iniziative, talvolta così stanca di fronte al peso delle cose da conservare e da fare, abbia bisogno oggi di una preghiera intensa, di una preghiera liturgica ben celebrata, di una preghiera che formi una sensibilità ecclesiale che unisce non per buona volontà di qualcuno, ma per il dono dello Spirito che scende su tutti.

Pensiamo ai recenti beati, Armida Barelli e don Mario Ciceri (vai allo speciale, ndr). La beatificazione di un sacerdote così semplice è un dono per la Chiesa del terzo millennio?
Penso che la santità di questo prete normale abbia una funzione provvidenziale. Quella che sembra una disgrazia – la sua morte in età giovanile per un incidente che ha causato tanto dolore – è diventata esposizione allo sguardo della Chiesa, un rendersi conto di quanto bene don Ciceri ha fatto. Come a dire che il Signore ci sveglia da una certa visione superficiale di ciò che accade. Ci rendiamo conto di quante cose straordinarie si compiono sotto i nostri occhi proprio quando qualcosa di clamoroso ci sottrae quello che siamo abituati a vedere. Allora si può contemplare la santità ordinaria del prete ambrosiano e della gente di questa nostra terra.

«Non basta abitare nella stessa città per sentirsi parte dell’unica Chiesa»: così lei ha concluso l’omelia di Pentecoste nella Festa delle Genti (leggi qui, ndr). Un invito a tutti a contribuire alla costruzione di quella Chiesa dalle genti «che la Chiesa di Milano vuole essere»…
L’opera di costruire la Chiesa è frutto dello Spirito che suscita quelle possibilità d’intesa, quelle forme di collaborazione, quell’apprezzamento reciproco che permettono di condividere i doni che ciascuno porta dal proprio Paese o dalla sua storia. Sono fiducioso che lo Spirito realizzi questa forma della Chiesa che è quella di domani. Abbiamo il desiderio di essere un’unica Chiesa in cui tutti i battezzati possano dire: «Questa è la mia Chiesa, la Chiesa di Milano», l’antichissima Chiesa ambrosiana che, da sempre, accoglie tutti i popoli che attraversano questo territorio e si arricchisce del contributo di ciascuno. Le difficoltà che, certo, esistono e sono complesse, chiedono molta riflessione, molta preghiera e anche il coraggio di qualche sperimentazione. Noi, d’altra parte, già constatiamo la pluralità di genti nei ragazzi che, per esempio, frequentano l’oratorio feriale. Abbiamo altri esempi di Chiesa dalle genti là dove si cantano le lodi del Signore, nei nostri cori multietnici, nelle scuole paritarie o nelle tante iniziative di accoglienza. Creare un senso di appartenenza, riuscire a celebrare una liturgia che corrisponda alla sensibilità condivisa, riuscire a riflettere insieme, facendo risuonare l’unica Parola di Dio, perché ci indichi le vie del futuro, incontra talvolta difficoltà che nascono dalla mentalità, dalla lingua, da situazioni concrete. La Chiesa dalle genti è una grazia da invocare, più che un risultato da preparare: un cammino da percorrere, piuttosto che un’organizzazione.