«Chiediamo perdono, provando vergogna…» per gli abusi sessuali, di potere, di coscienza; per la guerra, il colonialismo e lo sfruttamento, per l’indifferenza verso i migranti; per il mancato riconoscimento della dignità di ogni vita umana; per aver reso le donne mute e succubi o sfruttate, specie nella vita consacrata; per l’abbandono dei detenuti e per la pena di morte; per la speranza rubata ai giovani e per la dottrina usata come pietra per trattamenti disumani; per aver ceduto alle lusinghe della vanagloria; per l’autorità trasformata in potere.
Le richieste di perdono
Sette Cardinali – Gracias, Czerny, O’Malley, Farrell, López Romero, Fernández, Schönborn – si fanno voce della Chiesa per invocare il perdono di Dio per ferite che «non smettono di sanguinare» tra la gente, della quale è stata infranta la fiducia. Uno a uno leggono queste intenzioni nella Basilica vaticana durante la veglia penitenziale che conclude il ritiro di preparazione all’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, che si aprirà la mattina del 2 ottobre, con una Messa solenne in Piazza San Pietro. È il Papa a presiedere la liturgia, novità di questa seconda parte del Sinodo, ed è il Papa ad aver scritto queste intenzioni «perché – come dice nella sua riflessione a conclusione della celebrazione – era necessario chiamare per nome i nostri principali peccati. E noi li nascondiamo o li diciamo con parole troppo educate…».
Il passaggio di testimone ai giovani
Circa 2500 fedeli sono presenti in Basilica, tra cui tutti i membri dell’assise sinodale, disposti su sedie e panche che viste dall’alto riproducono la forma della croce. Partecipano a questo momento di preghiera, riconciliazione, “sinodalità”, organizzato da Segreteria generale del Sinodo e Diocesi di Roma in collaborazione con Usg e Uisg e aperta in particolare ai giovani.
È a loro che, alla vigilia di questa ultima tappa del percorso sinodale, vogliono mostrare il volto di una Chiesa che vuole camminare verso la purificazione e la trasparenza. Un gruppo di ragazzi e ragazze è in prima fila. Il Papa si rivolge a loro quando, nella sua riflessione, scandisce: «Noi abbiamo fatto la nostra parte, anche di errori. Continuiamo nella missione per quello che possiamo, ma ora ci rivolgiamo a voi giovani che aspettate da noi il passaggio di testimonianza, chiedendo perdono anche a voi se non siamo stati testimoni credibili».
Struggenti nella loro crudezza tre testimonianze. Sono tre persone che sulla loro pelle hanno subito le lacerazioni provocate dagli abusi, dalla guerra, dall’indifferenza di fronte al dramma migratorio. Tre sopravvissuti: alle violenze di un prete, a un naufragio, alle bombe in Siria.
Laurence, vittima di abusi di un sacerdote
Laurence è il primo: baritono sudafricano, vittima da bambino di un sacerdote che «per diversi mesi ha usato lodi, punizioni fisiche, manipolazioni psicologiche e tutti gli altri strumenti del suo arsenale per manipolarmi e adescarmi» e «infine – racconta – in una bella mattina sudafricana, mi condusse per mano in un luogo buio dove, nel silenzio urlante, mi tolse ciò che non dovrebbe mai essere tolto a nessun bambino». Come lui, tanti altri. Le accuse di loro, le vittime, per decenni «sono state ignorate, insabbiate o gestite internamente piuttosto che denunciate alle autorità», afferma Laurence. Questa «mancanza di responsabilità» ha permesso agli abusatori di continuare il loro comportamento e «compromesso la fiducia che in passato molti riponevano nell’istituzione». È stato «un tradimento delle responsabilità etiche e spirituali della Chiesa».
Solange, dalla Costa d’Avorio all’Italia
Prende poi la parola Sara, direttrice regionale Toscana della Fondazione Migrantes. Accanto a lei c’è Solange, originaria della Costa d’Avorio e sbarcata cinque mesi fa a Carrara, dichiarata “Porto sicuro” per l’approdo delle imbarcazioni delle ONG che operano nel Mediterraneo.
Solange non parla, ma ha voluto essere lì, a San Pietro, «per portare con me tutta la mia Africa». Sara si fa portavoce sua e di tutti i sopravvissuti al deserto, alla fame, alla sete, a violenze di ogni genere. Quelle di cui molte donne portano il frutto nel loro ventre. Questi sopravvissuti «per un gioco del destino erano sulla barca giusta che non è affondata, nel periodo giusto perché non troppo burrascoso e nel tratto di mare giusto perché solo dopo pochi giorni di navigazione sono stati avvistati e recuperati», dice Sara. Portano sul corpo ferite evidenti, ma sono più profonde quelle nell’anima e nella psiche: «Un senso di colpa ancor più radicato in chi è sopravvissuto perché è riuscito laddove molti compagni di viaggio hanno fallito». «Noi oggi – assicura la direttrice di Migrantes – siamo qua per testimoniare un’umanità nuova; da persone che accompagnano persone ad essere persone».
Suor Deema, voce dalla guerra in Siria
La terza testimonianza è di suor Deema, originaria di Homs, della comunità monastica di al-Khalil fondata nel ‘91 da padre Paolo Dall’Oglio insieme a Jacques Mourad. Parla a singhiozzi, commossa nel raccontare della guerra che «non distrugge solo edifici e strade, ma intacca anche i legami più intimi che ci ancorano ai nostri ricordi, alle nostre radici e alle nostre relazioni».
Durante la guerra siriana è stata devastata ogni forma di empatia, l’altro è diventato un nemico e lo si è disumanizzato fino a giustificarne l’uccisione. «Ho paura di morire ucciso da un mio amico musulmano», ha confidato alla suora un conoscente. Ma in queste macerie di «egoismo, violenza e avidità», è brillata la luce della solidarietà, della resistenza all’odio, dell’impegno alla non violenza divenuto «una denuncia silenziosa ma potente contro chi trae profitto dalla guerra, vendendo armi, conquistando terre o accrescendo il proprio potere. Abbiamo cercato di creare delle possibilità di incontro e opportunità per i giovani, impegnandoci a creare spazi di dialogo e crescita fondamentali per la ricostruzione delle relazioni e della speranza per il futuro», afferma la suora.
La riflessione di papa Francesco
Una pausa di silenzio precede l’intervento del Papa. Con la stola viola, il capo chino, un filo di voce, prende con sé questa umanità lacerata e la presenta a Dio: «Noi siamo qui mendicanti della misericordia del Padre». La Chiesa «è sempre Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca di perdono», non solo dei giusti e dei santi, afferma il Pontefice. «Nessuno si salva da solo, ma è vero ugualmente che il peccato di uno rilascia effetti su tanti: come tutto è connesso nel bene, lo è anche nel male. Solo curando le relazioni malate – rimarca – possiamo diventare una Chiesa sinodale».
Come il pubblicano
Francesco si sofferma sulla parabola del Vangelo di Luca del fariseo e del pubblicano. Il primo presume di pregare, ma in realtà sta celebrando se stesso. Il pubblicano, invece, piange e si pente. «Noi oggi siamo tutti come il pubblicano, abbiamo gli occhi bassi e proviamo vergogna per i nostri peccati – dice il Papa -. Come lui, rimaniamo indietro, liberando lo spazio occupato dalla presunzione, dall’ipocrisia e dall’orgoglio. E anche noi vescovi, preti, consacrate, consacrati… Non potremmo invocare il nome di Dio senza chiedere perdono ai fratelli e alle sorelle, alla Terra e a tutte le creature».
Violenza sempre più efferata
Oggi inizia una nuova tappa del Sinodo: «E come potremmo essere Chiesa sinodale senza riconciliazione?», domanda il Papa. Poi un altro interrogativo: «Di fronte al male e alla sofferenza innocente domandiamo: dove sei Signore? Ma la domanda dobbiamo rivolgerla a noi, e interrogarci sulle responsabilità che abbiamo quando non riusciamo a fermare il male con il bene. Non possiamo pretendere di risolvere i conflitti alimentando violenza che diventa sempre più efferata, riscattarci provocando dolore, salvarci con la morte dell’altro. Come possiamo inseguire una felicità pagata con il prezzo dell’infelicità dei fratelli e delle sorelle?».
Spezzare le catene della malvagità
La confessione è allora «occasione per ristabilire fiducia nella Chiesa e nei suoi confronti, fiducia infranta dai nostri errori e peccati, e per cominciare a risanare le ferite che non smettono di sanguinare, spezzando “le catene della malvagità”».
Francesco fa silenzio, lo segue tutta l’assemblea. Tutti poi si alzano in piedi e chinano il capo. Il Papa pronuncia la sua preghiera finale con ancora una richiesta di perdono a Dio: «Aiutaci a restaurare il tuo volto che abbiamo sfigurato con la nostra infedeltà». «Chiediamo perdono, provando vergogna, a chi è stato ferito dai nostri peccati Tutti chiediamo perdono, tutti siamo peccatori, ma tutti abbiamo la speranza nel tuo amore Signore».