Esprime anzitutto sollievo, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei latini, per l’incolumità degli equipaggi della Global Sumud Flotilla, il cui merito è stato comunque quello di risvegliare le coscienze dell’opinione pubblica sulla grave situazione di Gaza. Intervistato da Mario Calabresi, direttore di Chora Media, il Patriarca sottolinea che per le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia, nonostante le buone intenzioni, nulla è cambiato.
Un risveglio delle coscienze
«Ho l’impressione – dichiara il Cardinale – che il dramma di Gaza abbia tirato fuori una coscienza di dignità che giaceva inespressa nella coscienza comune. Adesso è venuta fuori, ha risvegliato qualcosa, anche indignazione. Vedo tanta partecipazione e questo è un aspetto positivo». Nulla, tuttavia, è cambiato per quanto riguarda la vita all’interno della Striscia, spiega il porporato: «Le immagini che arrivano fanno solo parzialmente giustizia della situazione che si sta vivendo. La distruzione immane, oltre l’80% delle infrastrutture sono distrutte. Ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto spostarsi e sfollare anche sette volte in questi due anni con tutta la famiglia». L’esistenza delle persone è devastata, spiega Pizzaballa, che ribadisce la quasi totale mancanza di ospedali e la conseguente mancanza di assistenza, non soltanto ai feriti e ai mutilati, ma anche a coloro che non possono ricevere cure ordinarie, come i dializzati o i malati oncologici.
Restare con i più fragili
«Per i più giovani questo è ormai il terzo anno senza scuola – spiega ancora il Patriarca -. È molto difficile parlare di speranza se non dai educazione». E poi c’è la fame: «Una fame reale. Mancano frutta, verdura, carne, che significa mancanza di vitamine e proteine. Insomma, è un disastro totale e i confini sono chiusi ermeticamente». Una situazione condivisa dalle 500 persone della comunità parrocchiale di Gaza, composta da malati, disabili e anziani, oltre che de religiosi e religiose. Tutte persone che non possono andare via da lì semplicemente perché non potrebbero sopravvivere agli spostamenti «e se loro restano lì anche i nostri sacerdoti e le nostre suore restano lì, e così anche il resto della comunità, quindi non è una scelta politica – spiega Pizzaballa -. Ma mi piace vedere questa Chiesa che decide di restare lì, come luogo di presenza attiva, pacifica, che non ha paura».
Quello che accade non è giustificabile
Per il Patriarca di Gerusalemme dei latini, «questa situazione non è accettabile e non è giustificabile. Sapevamo che dopo il 7 ottobre ci sarebbe stata una reazione, ma quello che sta accadendo non è giustificabile, non è moralmente accettabile. Soprattutto colpisce l’accanimento sui civili, questa disumanità, appunto la fame, la precarietà, i continui spostamenti, la distruzione di tutto». La mobilitazione internazionale per la distruzione plateale della Striscia ha risvegliato le coscienze sul senso della dignità umana e dei diritti, ma, per Pizzaballa, la strada verso la pace è ancora molto lunga.
Per la pace si dovrà attendere
«Mentre noi parliamo, siamo in attesa della risposta di Hamas al cosiddetto piano Trump, che ha tante lacune sicuramente, ma nessun piano sarà mai perfetto – dice – ed è ormai tempo, sono tutti stanchi, esausti, sfiniti da questa guerra. Al di là di questo comunque è evidente che si va verso una conclusione, adesso io spero che sia immediata con l’assenso di Hamas. Ma che comunque si arrivi alle fasi finali di questa guerra è evidente. La domanda è cosa accadrà dopo. Però la fine di questa guerra non sembra significare la pace. Pace è una parola molto impegnativa. La fine della guerra non è la fine del conflitto, il conflitto durerà ancora molto tempo, innanzitutto perché le cause profonde di questa guerra non sono ancora state prese in considerazione e poi comunque l’odio, il disprezzo, il rancore che questa guerra ha causato dentro le due popolazioni, israeliana e palestinese, avranno strascichi ancora per molto tempo».
Il trauma del 7 ottobre
«L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la questione degli ostaggi sono stati per la società israeliana un trauma profondo – riflette ancora il porporato nel corso dell’intervista -. Israele è nato come il Paese dove gli ebrei sono a casa loro, dove si sentono sicuri, innanzitutto. Il 7 ottobre è stato un grande shock perché è stato il primo momento dopo gli eventi della Seconda Guerra mondiale, dopo la Shoah, dove è avvenuta una strage di proporzioni immani per loro e hanno percepito che Israele non è più un luogo sicuro. Questo è un gravissimo trauma».
Una leadership che costruisca la convivenza
Parlare di una possibile convivenza tra i due popoli in questo momento, spiega infine il cardinale Pizzaballa, non è possibile, non sarebbe compreso. Bisognerà prima affrontare un lungo percorso che riconosca anche le colpe reciproche e che crei i presupposti del perdono. «Questo però non significa che non ci siano persone che lavorano alla costruzione della pace – precisa -. Sono una realtà importante, perché quando bisognerà ricostruire, quelle persone saranno necessarie, perché avremo bisogno di persone che abbiano ancora coraggio di pensare in maniera diversa, fuori dal coro e fuori dalla corrente dentro la quale siamo avviati. Credo sia possibile, ma abbiamo bisogno di leadership, di visione, qualcuno che abbia il coraggio di interpretare questo desiderio».