Ha un sapore decisamente controcorrente ed estremamente provocatorio l’incontro vissuto dai Vescovi lombardi, in pellegrinaggio in Terra Santa, nella piccola e spoglia chiesa di San Giacomo a Gerusalemme. Siamo nel contesto eccezionale di una comunità cattolica di rito latino, di lingua ebraica. Un unicum.
È davvero una scoperta il dialogo con don Benedetto Dibitonto, sacerdote originario di Napoli, che vive e svolge il suo ministero a Gerusalemme da circa sedici anni. «Sono qui solo con un visto, senza essere residente», confida alla folta delegazione lombarda, alla quale non cessa di esprimere riconoscenza per questa visita, che rappresenta un segnale di supporto importantissimo per i cristiani di Terra Santa, soprattutto oggi.
La preziosità di questa esperienza di Chiesa è per tutti una vera scoperta, ben descritta dalle parole del giovane prete: «Siamo una comunità piccola, povera, una minoranza invisibile, e questa è la condizione ideale per il dialogo con gli ebrei. Siamo talmente insignificanti che non facciamo paura a nessuno, nessuno ci teme e così le persone sono incuriosite, vengono a vedere, ci si incontra e si apre il dialogo». Parlare la stessa lingua della terra in cui si vive, spiega don Benny ai vescovi, «ci mette praticamente nella stessa condizione della Chiesa delle origini, pochi e incarnati nella realtà ebraica».
Non tutti capiscono, ci sono arabi che se sentono parlare ebraico pensano subito di avere a che fare con dei nemici; oppure i preti di altre parrocchie o i vescovi di altre Chiese spesso (sottolinea amaramente don Benedetto) sono critici, li accusano di tradire o svilire l’identità cristiana, di non prendere sufficientemente le distanze da Israele. «Stando qui, la scommessa è quella di mostrare il vero cuore del Vangelo, che chiama all’empatia, alla compassione, alla comunione e soprattutto chiede di andare controcorrente. E di pregare per tutti, per gli ebrei rapiti, per i morti, per gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania. Se non siamo disposti ad amare i nostri nemici, come possiamo dirci cristiani?».

Così, la chiesa di San Giacomo accoglie tutti, cristiani convertiti dall’ebraismo, anziani superstiti dell’Olocausto, arabi e moltissimi cristiani filippini che arrivano in Israele per lavorare come badanti o muratori; ma in chiesa arrivano anche famiglie di ebrei osservanti, toccati nei loro affetti dalla guerra, che vogliono unirsi in preghiera, in ragione dell’unica umanità e dell’identico dolore che oggi tocca tutti, ebrei e palestinesi. «Gli ebrei che entrano qui e sentono parlare la loro lingua iniziano a pensare che i cristiani non sono quello che avevano sempre immaginato, finti amici, con l’obiettivo di convertirli; avvertono che quello che si respira è il desiderio del dialogo, e che ci unisce l’unica umanità». Arabi, ebrei, convertiti al cristianesimo, già battezzati o ancora in cammino, pregano insieme, formando un unico vero popolo.
I Vescovi raccolgono questo racconto con empatia e le domande a don Benedetto arrivano numerose: come si legge la Bibbia, come si affronta il tema dell’elezione di Israele, che attività si svolgono nella parrocchia, come gli ebrei arrivano alla conversione al cristianesimo. E le risposte di don Benny raccontano di una realtà vivace e coraggiosa, espressamente sostenuta e incoraggiata dal Patriarcato latino e dal cardinale Pizzaballa, che accanto alle tradizionali attività formative e spirituali ha una scuola biblica seguita da tredici anni da una quarantina di persone, ebrei e cattolici insieme, che studiano tutto, Antico e Nuovo testamento, evitando ogni lettura fondamentalista e non chiedendosi mai Dio da che parte sta.








