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In libreria

Un prete al “Beccaria”

Don Claudio Burgio racconta la sua esperienza in un libro

a cura di Patrizio CIOTTI Redazione

16 Aprile 2010

«Ontologicamente non esistono ragazzi cattivi», ma persone che «a volte non vogliono affrontare la loro sofferenza". Così don Claudio Burgio (cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano e fondatore dell’associazione “Kayrós”, che accoglie minori e giovani in difficoltà), autore del libro Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano. «Ontologicamente non esistono ragazzi cattivi», ma persone che «a volte non vogliono affrontare la loro sofferenza". Così don Claudio Burgio (cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano e fondatore dell’associazione “Kayrós”, che accoglie minori e giovani in difficoltà), autore del libro Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano. Ogni volta che entro… «La vita è consegnarsi – spiega don Claudio -. Ogni volta che entro al “Beccaria” mi viene in mente questo verbo». C’è «il mio consegnarmi a un ambiente che mi obbliga a spogliarmi delle mie sicurezze, dei miei preconcetti». C’è «il consegnarsi di questi ragazzi che mi spalancano la loro vita, segnata dalla sofferenza e, al contempo, arricchita da una tremenda voglia di vivere». C’è «il consegnarsi delle famiglie di questi ragazzi che ti aprono spaccati a volte drammatici di vita domestica». C’è, infine, «il consegnarsi delle persone che lavorano dentro il carcere: personale di sorveglianza, educatori, psicologi, medici e infermieri, volontari». È un «crocevia di persone che entrano ed escono. Ognuna ha una storia di “consegna” da raccontare, da condividere e da ascoltare». Tuttavia, «questa consegna di sé all’altro non avviene senza resistenze, senza che venga messa a dura prova la dimensione della fiducia». Riconciliarsi con le proprie ombre Nel libro non si parla di “tolleranza zero”, ma di educazione. Infatti, afferma l’autore, «ontologicamente non esistono ragazzi cattivi. Ognuno è persona innanzitutto. E ognuno di noi si può interrogare sulla propria vita», vedendo che «ci sono luci e ombre. La fatica di questi ragazzi, che è la fatica di ogni adulto, è quella di riconciliarsi con le proprie ombre». È «importante però che non si identifichino con il reato, con ciò che hanno fatto», prendendo invece «coscienza che hanno sia luci, sia ombre». Questi ragazzi sono «troppo sofferenti, troppo fragili, ma mai cattivi» e «a volte non vogliono affrontare la loro sofferenza». Bisogna quindi «entrare nella loro storia, nella loro vita» e ciò significa «farci carico di una logica che non è assistenzialistica», ma vivere «l’educazione come un incontro tra persone che si mettono in discussione», anche perché i minori si accorgono subito se è «un finto ascolto – per accomodare la nostra coscienza o quella pubblica – oppure se è un ascolto vero, autentico». Cedere il passo alla fiducia «Il nostro senso di inadeguatezza educativa – continua –, deve cedere il passo alla fiducia»: se un «adolescente, nonostante i suoi sbagli, non avverte fiducia intorno a sé, difficilmente potrà scegliere vie diverse da quelle della trasgressione». Certo, «dare fiducia significa esporsi costantemente alla possibilità di essere “traditi”, ma questo non deve spaventarci». «Troppi genitori, insegnanti, educatori, in nome di un malinteso concetto di educazione, evitano lo scontro e, per non esasperare il conflitto, lo negano. È la scelta rassicurante – conclude don Burgio – di uno scriteriato buonismo pedagogico alla base dell’attuale “emergenza educativa” che sta degenerando sempre più in vero e proprio “vuoto educativo”».