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Epifania 1955

Quando l’arcivescovo Montini partì da Roma per Milano

Mons. Antonio Maria Travia,�già suo segretario�in Segreteria di Stato, poi Arcivescovo di Termini Imerese ed Elemosiniere di Sua Santità, deceduto nel 2006, in un articolo apparso sulla rivista "Diocesi di Milano" (n. 3/1985), racconta gli ultimi giorni romani di mons. Montini e il suo ingresso a Milano�

di Antonio Maria TRAVIA Redazione

6 Gennaio 2010

Quando mons. Montini, Pro Segretario di Stato di Sua Santità, fu nominato Arcivescovo di Milano ero suo segretario già da circa otto anni. È del tutto superfluo dire che nessuna confidenza né alcun indizio previo di tale avvenimento ricevetti da lui, tuttavia alcuni suoi atteggiamenti mi fecero sospettare che qualche novità si maturava, come un breve ritiro di pochi giorni presso le Suore Ospedaliere del S. Cuore di Gesù a Nettuno che egli decise di fare nel settembre del ’54 e, al ritorno, quel contegno ancor più accentuato di calma che tradiva un particolare dominio di sé che egli soleva assumere in momenti di particolare gravità, nonché l’insistere nel formulare programmi di lavoro la cui attuazione richiedeva tempi lunghi.
Ricordo questi dettagli per confermare quanto è da tutti noto, come cioè egli avesse la massima cura di nascondere i suoi sentimenti e le sue emozioni soprattutto per quanto si riferiva alla sua persona.
E allora come fare a descrivere i sentimenti di mons. Montini nel viaggio che lo portò – o lo strappò – dal Vaticano a Milano, il 4 gennaio 1955, in un momento cioè in cui essi dovevano essere particolarmente intensi e le sue autodifese particolarmente attive? Per supporli basta inquadrarli in due episodi molto significativi. Pochi giorni dopo la nomina il suo caro Piazza, che dagli anni della Fuci egli amava come un figliuolo e da cui fu tanto amato finché lo precedette di qualche anno nella tomba, lo sorprese in lacrime nel buio di una stanza del suo appartamento in Vaticano.
Poche ore prima di fare il suo ingresso a Milano un altro suo caro amico, pure del tempo della Fuci, particolarmente del momento più doloroso di esso, Orlandi, irruppe – si può proprio dire così – nel suo rifugio di Rho: egli rivedendolo dopo tanti anni e abbracciandolo fortemente scoppiò in lacrime.