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Angelo Colla realizzò un deciso intervento di restauro non esitando a distruggere la chiesa settecentesca per sostituirla con l'attuale caratterizzata da uno stile neoromanico

di Mirko Guardamiglio

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Il primo edificio sacro, ormai scomparso, era uno dei più antichi della Città, dedicato al quarto Vescovo di Milano e sorto appena fuori dal nucleo paleocristiano in un’area cimiteriale lungo la via per Roma. La prima menzione della chiesa si trova in un epigramma di Ennodio (474-521 ca.) che ne ricorda il restauro ad opera del vescovo Lorenzo (490-512) e descrive la chiesa come «priscam figuram» definendo Lorenzo «novorum conditor». Se dunque la chiesa poteva essere menzionata come antica già fra il V e il VI secolo, se ne deduce che la sua fondazione doveva risalire al secolo precedente. Probabilmente si trattava in origine di una «aedes memoriae» o basilica cimiteriale sulla quale intervenne il restauro di Lorenzo. Oltre a questa semplice deduzione pare doveroso far riferimento ad alcune scoperte archeologiche che ne attestano l’antichità.

In primo luogo possiamo far riferimento ad una campagna di scavi condotta nel 1905 ad opera del prevosto Pellegrini grazie alla quale furono rinvenuti otto mattoni appoggiati a tronchi di larice e utilizzati come gradini per scendere alla sorgente che scaturiva nella cripta. Su questi mattoni era chiaramente visibile una marca di fabbrica risalente a Teodorico (493-526).

In secondo luogo possiamo fare riferimento allo studio dell’Arslan che nel 1954 riconosceva l’origine palocristiana dell’arco scoperto dal De Capitani ed oggi ancora visibile nel sottotetto.

In terzo luogo è possibile far riferimento ad una lapide che, risalente al vescovo Tommaso ossia alla fine del secolo VIII, attesta i lavori di restauro compiuti nella chiesa e la sistemazione del corpo del Santo titolare sotto l’altare della cripta.

Infine esistono tuttora frammenti di iscrizioni funerarie pagane e cristiane, provenienti dalla vecchia necropoli e murate sul fianco destro della chiesa che dimostrano ulteriormente l’antichità dell’edificio primitivo.

Una radicale trasformazione della chiesa avvenne in età romanica, in un tempo che i pochi resti sopravvissuti ai rimaneggiamenti ottocenteschi consentono di fissare attorno all’XI secolo. Si tratta dell’abside, e dei fianchi esterni. Il piccolo campanile risulta essere un’ingegniosa soluzione dato che si innesta obliquamente sul corpo sottostante tramite raccordi a tromba d’angolo. L’interno era sin dall’origine a navata unica e, considerando le dimensioni dell’arco paleocristiano già ricordato, non molto diverso da quello attuale cioè, in altri termini, la ricostruzione romanica dovette ricalcare le proporzioni dell’edificio preesistente. Ma le successive vicende risultano oscure tanto che il Giulini, citando un atto del 1119 risalente all’arcivescovo Giordano, ne parla nei termini di chiesa decumana o non parrocchiale. Tuttavia nel 1398 risulta che presso la chiesa di San Calimero risiedevano tre sacerdoti addetti alla cura d’anime e che il loro numero rimase invariato sino al 1466 quando però la chiesa doveva aver assunto il ruolo di parrocchia. Leggendo la relazione successiva alla Visita Pastorale (18 luglio 1567) scopriamo che la chiesa è vecchia, il pavimento è sconnesso, disseminato di numerosi sepolcri, una volta in laterizio copre la navata solo nella metà prospiciente il presbiterio, mentre l’altra metà è «sine coelo», cioè con le travi a vista, le pitture sono in cattivo stato, come pure la cappella di Sant’Elisabetta a sinistra e quella di sant’Antonio a destra. Tuttavia gli interventi allora effettuati, a parte l’apertura di un oculo in facciata, furono solo di manutenzione ordinaria. Anche se nel 1609 l’arcivescovo Federico Borromeo decise di traslare in Duomo le reliquie di San Calimero si dovette attendere il lascito testamentario del canonico Barbieri (morto nel 1654) per raccogliere la somma necessaria ad effettuare i radicali lavori di restauro affidati al Richini. Solo leggendo i testi del Torre e del Latuada possiamo farci un’idea dell’intervento del Richini: la chiesa era costituita da una facciata con portico sostenuto da colonne che dava accesso a tre portali d’ingresso mentre l’interno dell’edificio sacro era a navata unica con tre cappelle su ciascun lato più il battistero.

La descrizioni del Torre e del Latuada sono confermate da un rilievo effettuato da Enrico Besia nel 1874 quando fu incaricato di stendere un progetto per nuovi interventi sulle strutture della chiesa. Tuttavia il progetto del Besia non fu accettato né dalla Commissione d’ornato né dalla Consulta Archeologica e l’incarico fu affidato ad Angelo Colla il quale sviluppò e realizzò un ritorno ad un romanico vagheggiato e inesistente non esitando a distruggere la chiesa settecentesca per sostituirne il prospetto con l’attuale che si caratterizza all’esterno per un protiro, archetti pensili e tre finestre con ghiera in cotto e all’interno per la navata a cinque campate con volta a vela. Da questo gusto si stacca l’altare maggiore realizzato in sobrie forme neoclassiche nel 1822. Ai suoi lati due scalinate conducono alla cripta, già esistente nel secolo VIII ma rifatta nel Cinquecento, dato che le otto colonne in serizzo che tuttora ne sorreggono le volte ribassate sono già menzionate nella visita pastorale del 1567.

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Fonti:
M. T. Fiorio, Calimero, chiesa di S. in «Dizionario della Chiesa Ambrosiana» Vol. 1, NED, Milano 1987, 565-568.

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