Mentre l’Arcivescovo di Milano dalla Basilica di Sant’Ambrogio pronuncia il Discorso alla città, a poche centinaia di metri oltre 1100 persone affollano il carcere di San Vittore, ignare che Delpini parli anche di loro. Nel suo messaggio ripete più volte: «Non sarò complice». Lo fa segnalando alcune «crepe» che danneggiano la casa comune, per esempio parlando dell’intollerabile situazione delle carceri, «dei carcerati e del personale», ma anche del «degrado strutturale dei penitenziari». Insomma, non si può tacere di fronte a certe condizioni di vita e di lavoro.
«Non possiamo tacere: sia lavoratori e lavoratrici, operatori e operatrici nel sistema giuridico, penale, penitenziario, sia cittadini e cristiani, perché la responsabilità di ciò che accade all’altro – al fratello, alla sorella -, è un compito sia civile, sia religioso, spirituale», commenta Ileana Montagnini, responsabile Area carcere e giustizia di Caritas ambrosiana. E aggiunge: «Davanti al primo fratricidio, è la terra a gridare per il sangue del fratello, perché è un bene comune. L’azione che lede il patto danneggia tutti, quindi io non posso stare zitta, perché sono coinvolta in prima persona. L’Arcivescovo sottolinea come in ogni crepa ci sia una responsabilità condivisa e non si può non assumersi questa responsabilità, altrimenti si passa dall’altra parte, si diventa complici del male procurato. Il fatto che lo ripeta come un monito significa che nessuno può dirsi estraneo».
Delpini usa parole forti quando parla della «mentalità repressiva che cerca la vendetta piuttosto che il recupero». È una cultura diffusa che preoccupa gli operatori del settore e non crea sicurezza sociale…
Di fronte a questioni serie come il sovraffollamento, le tensioni, i problemi di salute fisica e mentale, è gravissimo che la risposta attuale sia una progressione securitaria. Questa è la linea evidenziata da alcune leggi e circolari legislative o applicative che vanno verso una chiara deriva securitaria, quindi la scelta per rispondere ai problemi citati è quella della punizione. L’Arcivescovo sottolinea che la risposta della punizione provoca «rabbia, risentimento, umiliazioni». Oggi si sta rispondendo con dinamiche repressive, sapendo che questo non potrà che generare altre forme di male. È un’illusione credere che si possa sanare punendo: qualunque genitore, insegnante, educatore sa che non funziona. E allora come mai, se lo sappiamo, siamo arrivati a una sistematizzazione dell’approccio punitivo? Questo è gravissimo e noi non possiamo stare zitti.
Tra i fattori cronici l’Arcivescovo indica il sovraffollamento, ma la soluzione non sta nel «costruire altre prigioni»…
Abbiamo detto bene in questo Anno giubilare cosa sarebbe servito: oltre ad applicare le misure alternative e le pene sostitutive – già previste dall’Ordinamento -, l’unica scelta sensata era quella di studiare in maniera precisa un provvedimento di clemenza. Invece siamo andati nella direzione opposta. Di fatto l’abolizione della sorveglianza dinamica (mantenendo le celle chiuse, ndr) esisteva già, ma si è fatto il contrario, decidendolo scientemente, e così siamo tornati indietro. Poi, lo sottolinea anche l’Arcivescovo, non serve costruire nuovi luoghi di restrizione, serve aprire.
A San Vittore, in particolare, preoccupa vedere in carcere persone malate, con problemi di salute mentale: sono un rischio per gli altri oltre che per loro stessi (autolesionismo e suicidio)…
Chi ha una dipendenza e chi è malato deve essere curato, a prescindere dallo stato in cui si trova. Non capisco perché un cittadino o una cittadina affetti da un disturbo mentale vengono (o dovrebbero essere) presi in carico, mentre la persona detenuta no. Si ritiene invece che prima debba essere chiusa, punita, nonostante – come ricorda l’Arcivescovo – non esista alcun fondamento costituzionale in tal senso. Sarebbe come commettere un illecito grave non rispettare la Costituzione, che comunque stabilisce che i malati devono essere curati e questo non cambia se si tratta di persone detenute. Inoltre rendere il carcere una discarica sociale mette a dura prova chi deve svolgere un lavoro rieducativo: non si può essere attrezzati per ogni emergenza sanitaria, di salute mentale o per sventare continuamente i tentativi suicidari. Gli agenti devono fare gli agenti, gli educatori devono fare gli educatori, non occuparsi di tutto. Chi lavora in carcere deve essere messo in condizione di farlo bene, nel rispetto della Costituzione.





