«Il carcere fa soffrire, soffrire tanto, e per questo ti poni delle domande. Tocchi il fondo e risali». Dice così uno «che ce l’ha fatta», riuscendo, appunto, a chiedersi se possa esistere una vita diversa e un futuro, anche per coloro che sbrigativamente la società definisce “i ragazzi cattivi”. Quelli a cui don Claudio Burgio, prete diocesano, classe 1969, ha dedicato un libro, intitolato invece Non esistono ragazzi cattivi, facendone lo slogan della comunità di accoglienza Kayros (che in greco significa, non a caso, “tempo opportuno”) per ragazzi coinvolti in procedimenti penali, da lui fondata nel 2000. Comunità che offre supporto e alloggio a minori e giovani adulti – attualmente una cinquantina gli ospiti -, in collaborazione con il Tribunale per i minorenni e i Servizi sociali. Realtà di cui l’Arcivescovo visita i locali, per il sesto appuntamento della bella iniziativa «L’Arcivescovo vi invita», proposta dalla Fondazione degli Oratori Milanesi e che ha permesso a molte decine di adolescenti provenienti dagli oratori della Diocesi, di conoscere in questi mesi luoghi di speranza nei quali, di volta in volta, si sono esemplificate le opere di misericordia corporale in riferimento al Giubileo: a Kayros, ovviamente, «Visitare i carcerati».
Per l’occasione, a entrare con l’Arcivescovo, il vicario episcopale di Settore don Giuseppe Como e il direttore della Fom don Stefano Guidi, nella bella e ariosa struttura di Vimodrone per parlare con gli ospiti, sono stati i ragazzi degli oratori delle parrocchie San Giuseppe dei Morenti di Milano, Risurrezione di Gesù di Sesto San Giovanni e della Comunità pastorale San Paolo VI e Beata Alfonsa Clerici di Lainate, accompagnati dai loro sacerdoti e accolti da don Burgio, dal sindaco di Vimodrone Dario Veneroni e dal direttore generale dell’Associazione,Guido Boldrin.

Tante storie
Come “intervistatori” dei testimoni, Daniel Zaccaro – educatore nella comunità, una laurea in Scienza dell’Educazione, dopo essere stato accolto come misura alternativa al carcere – e Anas, anche lui una vita finalmente riuscita, pur tra tante difficoltà.
Partono così le storie, come quella di Luca, l’ultimo arrivato a Kayros 4 mesi fa, conosciuto al Meeting di Rimini per caso durante la visita a una mostra organizzata dall’associazione con altre realtà. «Ho cercato questa comunità – spiega con semplicità – perché era un periodo brutto della mia vita: mi drogavo di psicofarmaci. Una mattina, annebbiato dalle sostanze, volevo farla finita, ma per fortuna ho scelto di scrivere a Daniel e mi sono ritrovato. Oggi faccio musica, appena sono entrato qui ho visto tanta gente disposta ad aiutarmi, ho ripreso, sono tornato a scuola perché un diploma ci vuole. Ho avuto una famiglia bellissima, umile, con una mamma che insegna religione, ma contraddicevo i genitori, non li ascoltavo e ho fatto tutto il contrario di quello che mi insegnavano, mi spiace».
Poi, Gabriel, 23 anni, uno dei ragazzi più grandi, anche lui desideroso di entrare a Kayros – dove, dal 2006, sono previsti anche progetti di semiautonomia e autonomia per giovani adulti -, dopo il carcere a Rimini, il passaggio da altre comunità di accoglienza e la conoscenza con Burgio: «Mi sono fermato perché ho fiducia e non mi era mai capitato prima. Il carcere non è un bel posto, è difficile starci, soprattutto per un ragazzo tra tanti adulti, ma alla fine ce l’ho fatta».
Così, con vicende diverse, ma in fondo tutte accomunate dalla caduta e da ciò che si vorrebbero chiamare piccole-grandi risurrezioni tutte umane, anche Andrew e Braian, 4 anni di detenzione, che racconta come in carcere possa esserci l’amicizia: «Vivendo lo stesso schifo e la sofferenza può nascere qualcosa di bello e, magari, la prospettiva di una vita fuori. O esci con la tua testa o nessuno ti aiuterà a uscire – dice -. Essendo io sono uscito contemporaneamente a tanti amici, ma vedendo i loro sbagli, ho capito quello che non devo fare».
Interviene Daniel: «La diversità qui non è motivo di scontro, ma di ricchezza. Tanti ragazzi sono affascinati dal male, ma a Kayros puntiamo sul bene che può essere attrattivo, le regole si fanno insieme e sentiamo che facciamo parte di una famiglia».

Bilal, dal Marocco all’Italia
E, poi, c’è Bilal, 18 anni, da tre a Vimodrone, con il Marocco lasciato a 14 anni, la vita a Malaga fatta di droga e psicofarmaci, la strada in Francia, «rubando di notte a Parigi», il carcere in Olanda a Breda, e, poi, ancora recluso nella capitale francese, infine, detenuto a Torino, dove ha conosciuto don Claudio. «Di comunità ne ho passate tantissime – ricorda -, ma ti mandavano via dopo uno sbaglio, invece qui sei più libero e vedi qualcuno che si è costruito un futuro. Sono diventato una persona diversa, ho smesso di drogarmi, ho fatto la terza media, un preso un diploma, lavoro in uno studio di registrazione e tra un mese torno in Marocco, dopo cinque anni, a rivedere la mia famiglia». Anas, aiutato da Kayros e che ha iniziato a far l’educatore proprio con Bilal, è l’esempio di una sorta di storia intrecciata e virtuosa «per cui l’uno ha imparato dall’altro» e il più anziano (si fa per dire) ha oggi l’orgoglio per il ruolo educativo che svolge.
Lamine, «l’eroe»
Lamine, un bel sorriso aperto, scappato dal Senegal a 13 anni, passato in Malì, Burkina Faso, e nell’inferno della Libia («se non l’hai vissuta come me per due anni non sai cosa sia»), arrivato in Italia come minore non accompagnato, aggiunge: «Ero schiavo in una casa dove facevo i mestieri domestici, non potevo nemmeno uscire. Ho detto basta, ho litigato con il mio “padrone” che mi ha scaricato al mare. Poi sono sbarcato a Lampedusa, e sono scappato dalla comunità in Sicilia dove mi avevano messo perché avevo solo 14 anni».
La sua vicenda finisce o comincia – dipende dai punti di vista – a Kayros e a Vimodrone, dove lo chiamano «eroe», perché «andando al lavoro, mentre altri facevano solo foto con i telefonini, io sono salito in una casa in fiamme, da cui una persona chiedeva aiuto e con un amico abbiamo salvato 4 persone e un cane da un incendio. Per me è normale: mi hanno salvato in mare, ora tocca a me salvare».
Don Burgio: «Qui sono diventato un prete più credente»
Continua Giusy Re, co-fondatrice della comunità nel 2000: «Vengo da un oratorio, San Martino in Lambrate, dove ho conosciuto don Claudio. Lasciato il lavoro in Regione Lombardia, ho deciso di fondare Kayros, prima a Cologno Monzese e poi a Vimodrone. I miei ragazzi crescono e cresco anche io con loro». Parole cui fa eco lo stesso don Claudio: «Ci siamo sentiti interpellati dai giovani e dalle famiglie. Sono loro che mi hanno convinto e mi hanno chiarito, negli anni, la mia vocazione a fare il prete qui, dentro al mio essere un sacerdote diocesano. In me è cresciuta una sensibilità per cui sono andato ad aiutare don Gino Rigoldi al Beccaria e ora ne sono il cappellano. Sono grato a questa realtà che mi ha aiutato a essere un prete più credente e riconciliato con i miei limiti. Giro tanti oratori, parrocchie, scuole, a volte con i miei ragazzi, per raccontarci. Mi sono chiesto, ma io annuncio il Vangelo o sono un’assistente sociale? Con il tempo ho capito da loro che la domanda di fede non è così lontana, tanto che alcuni giovani mi hanno chiesto di battezzare i figli e di ricevere i sacramenti».
Infatti, a Kayros, pur con diverse confessioni religiose presenti – molti i musulmani -, si parla anche di fede. «Dio esiste, ma sono arrivato a un punto che mi sono chiesto perché, se ho sempre voluto bene a Dio, ho avuto tante sfortune, tante delusioni dalle famiglie affidatarie», dice un ospite, mentre un altro ammette: «Per me Dio è fondamentale, se non credi in qualcosa come fai?».
L’intervento finale dell’Arcivescovo
Domande a cui l’Arcivescovo risponde in conclusione, prima della benedizione e di un momento allegro e conviviale vissuto tutti insieme a bordo del campo da calcio di Kayros con il buffet preparato da Davide, il cuoco della comunità.
«Spesso quando si parla di Dio ci affidiamo a una specie di fantasia, pensiamo che faccia miracoli, che salvi dai problemi, ma non è così. Dio è colui che ha mandato Gesù, quindi, per credere bisogna diventare amici di Gesù. Tante storie sfortunate, che fanno pensare, ci fanno chiedere dove sia la speranza, ma io credo che siamo come i 10 lebbrosi che fanno schifo agli altri e a persino a loro stessi, dicendo che la vita è solo una persecuzione, ma che hanno una sola cosa da fare, chiedere a Gesù di guarire. A chi risponde sì al Signore, lui chiede di essergli amico, di prendere la propria croce e di seguirlo. La questione seria è se vogliamo essere amici di Gesù, uno che, come sapete, non ha avuto una vita fortunata finché lo hanno ucciso».
«Guardate a lui che ha detto che anche così si può amare. Nessuno di noi è solo vittima: possiamo usare la libertà per cercare il bene. Per quanto siamo fragili, non ci sonno storie già scritte, dovete scriverle voi», scandisce, rivolto direttamente ai giovani che ha davanti, prima di consegnare un’altra indicazione: «Nessuno si salva da solo. Una comunità vuole dire una serie di rapporti che aiutano a diventare migliori, anche perché avere una compagnia può orientare al male e questo ci dice anche quale grazia hanno coloro che partecipano a un oratorio».









