Atmosfere cupe e grottesche si fondono ne ‘L’orto americano’ di Pupi Avati, un noir gotico che, evocando l’atmosfera del cinema di genere degli anni ’40 e ’50, trasporta lo spettatore in un dopoguerra sospeso tra Italia e Iowa.
Il protagonista, un aspirante scrittore psicotico interpretato da Filippo Scotti, è un personaggio che incarna l’ossessione amorosa portata all’estremo. Un incontro fugace, di soli sguardi, con l’infermiera americana Barbara fa scattare in lui una mania che lo spinge a un’odissea surreale per ritrovarla. Il film gioca con la percezione dello spettatore, alternando momenti di tensione psicologica a scene di ironia involontaria. Sebbene l’inizio sia coinvolgente, la narrazione si complica progressivamente, con sequenze che sfidano la comprensione.
La figura di Lui, il protagonista, sospesa tra il mondo dei vivi e quello dei defunti seguita dalla sua incapacità di distinguere realtà e fantasia, sollevano interrogativi sulla sanità mentale e sulla natura dell’ossessione. Un tema che riecheggia le analisi di filosofi come Søren Kierkegaard poiché questa stessa fissazione lo spinge a trascendere i limiti della ragione e della realtà, alla ricerca di un amore ideale che si rivela irraggiungibile.
Il suo viaggio, alla ricerca di Barbara, infatti, si trasforma in una discesa negli abissi della psiche, un percorso in cui i confini tra amore e follia si sfumano. Il film esplora anche il tema della verità e della giustizia, con il processo di Zagotto, un uomo accusato di aver brutalmente assassinato alcune donne, una vicenda che mette in discussione la certezza della colpa e la possibilità di una giustizia equa. In questo senso, “L’orto americano” si avvicina alle riflessioni del filosofo e saggista Michel Foucault sul potere e sulla costruzione sociale della verità. Questa si rivela un elemento precario, plasmato dall’ambiguità delle prove, dall’inaffidabilità dei testimoni e dalla distorsione percettiva del protagonista.
Nonostante alcune debolezze narrative e una messa in scena altalenante, il film riesce a creare un’atmosfera di inquietudine e disagio, grazie anche alle interpretazioni del cast. Il finale, enigmatico e aperto a diverse interpretazioni, lascia lo spettatore con più domande che risposte, sulla natura dell’amore, sull’ossessione e la verità, alimentando, così, il senso di mistero e ambiguità che pervade l’intera opera.

Opera d’arte ispirata alle tematiche del film: “Il sogno del pastore” del pittore John Henry Fuseli


