Sono legato a padre Clemente Vismara da particolare affetto perché, proprio per indagare sulla sua santità, ho conosciuto la splendida terra birmana e la sua ancor migliore popolazione. Da loro ricevetti un esempio di fede che mi impressionò e che volli testimoniare io stesso, quando il 17 ottobre 1998 inviai alla Congregazione delle cause dei santi il ponderoso processo. Lo volli accompagnare con una lettera personale al prefetto della Congregazione, il cardinale José Saraiva Martins: «Abbiamo incontrato moltissima gente buona, sorridente, disponibile, desiderosa di conoscerci e di prestare la propria testimonianza a favore della beatificazione di Padre Vismara, del “Patriarca della Chiesa Birmana” e in particolare della diocesi di Kengtung».
«Gente umile – aggiungevo -, dignitosa, discreta. In quelle terre mi è venuto più volte spontaneo pensare che secondo l’antica procedura di canonizzazione popolare Padre Clemente Vismara sarebbe già stato proclamato beato dalla comunità cristiana di Kengtung». Gente che per partecipare al Processo di beatificazione aveva camminato anche quattro o cinque giorni nella foresta, per consegnare una testimonianza per certi versi “scarna”, ma tutte concordi nel dirmi: «Dite al Papa che Padre Vismara ci ha molto aiutati, quando era vivo; molto di più ci aiuterà come santo dal Cielo».
Chi era
Clemente Vismara nacque ad Agrate Brianza il 6 settembre 1897, quinto di sei fratelli e sorelle di una famiglia dignitosamente povera: suo padre Attilio faceva il sellaio, la mamma, Stella Porta, era cucitrice. Fu presto provato dal dolore: quando aveva cinque anni morì la sua mamma (22 settembre 1902), tre anni dopo morì il suo papà (8 gennaio 1905) e i parenti – e in particolare lo zio, parroco di Bussero – non trovarono soluzione migliore che affidarlo al Collegio Villoresi di Monza.
La sua vita fu tutta un’avventura. Entrato nel Seminario di San Pietro in Seveso nel 1913, si distinse subito per la sua vivacità, che conservò anche, quando, scoppiata la prima guerra mondiale, fu chiamato al fronte come molti seminaristi: «Credevo che fosse più brutto stare in caserma – scriveva al Rettore nel novembre 1916 -, invece a sapere un po’ fare e saper indurire un po’ le orecchie, la si può passare un pochettino bene come la passo io. I miei compagni non sono più così cattivi come a parole vorrebbero dimostrare. Prima di levarmi e di coricarmi dico le mie orazioni in presenza di tutti e nessuno osa dirmi qualche cosa, anzi alle volte io stesso grido in mezzo alla caserma che abbiamo a dire anche le orazioni».
Non c’è dubbio: un giovane entusiasta e senza paura, che, al ritorno dal fronte, decise di passare al Pime, o meglio – come si chiamava allora – all’Istituto per le Missioni Estere, una forma ante litteram dei fidei donum, poiché era formato da sacerdoti ambrosiani a tutti gli effetti, ma che si sarebbero dedicati alle missioni. D’altra parte il suo motto era: «Il mondo è bello e la vita più bella ancora. Altrimenti a cosa serve la fede?».
Il cardinale Eugenio Tosi lo ordinò il 26 maggio 1923 e tre mesi dopo partì già per la Birmania, una regione allora ancora inesplorata in gran parte, coperta da una vegetazione incontaminata sin dalla creazione del mondo! Si buttò a capofitto nella nuova vita d’avventure e di fatica: per raggiungere la base della sua missione, Kengtung, partendo dall’ultima postazione, la città di Toungoo, dovette cavalcare per quattordici giorni. C’erano alcuni confratelli, ma spesso rimaneva solo, poiché occorreva spingersi ancora più all’interno di quell’immenso e splendido paese, a Mong Ping, a Mong Lin, a Mong Piak: ogni collina custodiva un villaggio, dei poveri, dei malati, degli orfani, tutta gente buona.
«Faccio pipate saporose»
Il suo stato d’animo ci è testimoniato da una sua lettera al superiore del Pime, Paolo Manna. Il 30 giugno 1924, padre Clemente gli scrive: «Le riflessioni che lei mi propone non mi erano del tutto estranee, già le pensavo con timore di me stesso e desidero di concludere qualche cosa migliorando me stesso e cercando di sbarcarmi il salario della giornata di questa vita con minor debito possibile e qualche gruzzoletto per poter vivere in Paradiso con una buona pensione senza lavorare. La cura mia maggiore e il mio più forte desiderio è quello di acquistarmi un po’ di vita interiore, perciò mi sforzo di imperniare tutte le mie azioni e aspirazioni sulla SS. Eucaristia, ponendo devozione nella S. Messa e cercando, se mi è possibile, di fare anche ogni giorno l’ora d’adorazione. Credo che questa sia una buona via, facile e sicura, perciò desidero seguirla con costanza e fiducia. Da due mesi circa mi trovo a Mong Ping con p. Portaluppi, ma questo, buon viaggiatore, mi lascia spesso e a lungo a cavarmela con questi Shan che non comprendono l’italiano. Questa solitudine non mi reca noia, anzi mi spinge a esser meno ragazzo e a trovare la mia compagnia presso l’altare. Non soffro neppure l’ombra della malinconia “ninfa Gentile”. Faccio pipate saporose da gareggiare coi comignoli della ditta Pirelli, canto come un merlo (se manca la voce, contro il galateo, fischio) e la privazione dei comodi mi riesce di piacere. Non mi è andata mai così bene come ora. Non so davvero come ringraziare il Signore di questo grande dono della vocazione, mi sembra un sogno l’essere giunto qui, sono felice e beato e mi frego le mani di compiacenza».
Sessantaquattro anni
Con questo spirito visse i suoi sessantaquattro anni di missione, ricchi d’avventure tali da scriverne romanzi. Basti anche solo l’inizio. Gli portarono tre orfanelli: dove sistemarli? Nessuno voleva cedergli del terreno. Allora chiese il terreno “occupato dagli spiriti”. La gente lo ritenne pazzo, ma rispose loro sornione: «Il mio Dio è più forte dei vostri spiriti. Tornate domani e vedrete». La gente del villaggio vegliò furtiva di notte, nel timore che gli spiriti si scatenassero; venne furtiva di giorno, per raccogliere il corpo dell’uomo bianco, punito dagli spiriti; lo trovò sorridente, con la pipa in mano. D’altra parte lui diceva spesso che a «voler bene al Signore non ci si perde».
Da allora, centinaia di ragazzi divennero uomini per la sua carità, per il suo entusiasmo di prete che crede nella Provvidenza. Morì sazio di giorni, come i grandi patriarchi biblici, sereno, ripetendo la sua raccomandazione: «Cercate di stare bene e, se volete stare meglio, fate del bene. Io pure sto bene e mi pare di non avere sbagliato a fare il prete, non ho vissuto invano».
• Il profilo del "patriarca" (video)
• Una vita per la missione (video)