Useremo un elenco alfabetico per scandire le parole chiave dell'Animazione in oratorio e del suo stile unico che coinvolge non solo gli animatori adolescenti (anche durante l'anno) ma ogni persona che in oratorio si mette al servizio dei più piccoli. Svilupperemo anche durante quest'anno il nostro "VocabolAnimazione".


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Ma in oratorio A sta per Animare o per Adolescente? O tutti e due? Tutti gli Adolescenti sono Animatori? Animazione centra più con l‘Anima o con l’Azione?”

 

Giocheremo con le parole, o meglio, con le lettere dell’alfabeto per andare al cuore della questione! L’animazione è il linguaggio dell’oratorio. Ma noi sappiamo che cosa significa e che cosa questo comporta? Cercheremo di presentare un semplice percorso, scandendo le parole chiave dello stile dell’animazione con un elenco alfabetico.

 

Le prime due lettere del VocabolAnimazione sono disponibili nel sussidio VIA COSÌ o cliccando qui

 

Con le lettere si può certamente fare molto! Per prima cosa coinvolgeremo gli animatori dell’oratorio, chiedendo loro di pensarci su e di ri-modellare il proprio servizio. Sarà necessaria, anche nel campo dell’animazione, una ri-partenza per andare VIA COSÌ.

 

Ci serviremo anche del nostro Canale Youtube Pastorale Giovanile FOM Milano, pubblicando video sulle lettere del nostro alfabeto legato all’animazione in oratorio.

Useremo anche Instagram e Facebook. Restiamo connessi.

 

La prima lettera
A COME ANIMAZIONE

Ogni definizione per sua natura traccia un perimetro, segna una cesura tra ciò che definisce e ciò che pur avvicinandosi,  pur somigliando o apparendo simile non coincide con quanto viene invece definito. Per questo motivo per capire cosa sia Animazione – poiché d’animazione pastorale si tratta –  può essere utile chiarire a scanso di facili equivoci ciò che NON è animazione. L’animatore d’oratorio non è un animatore da villaggio turistico o da area giochi in centro commerciale, poiché in questi ambiti il focus è lui stesso – quanto sono bravo, quanto sono bello – e non le persone per cui viene fatta animazione: lì l’obiettivo è far colpo per farsi richiamare e lautamente pagare, al contrario l’animatore oratoriano opera in gratuità e ha come obiettivo il bene delle ragazze e dei ragazzi a lui affidati. Animazione non è eccitazione o spettacolarizzazione fine a sé stessa di qualsiasi attività, quanto invece “dar l’anima” a qualunque proposta venga fatta, sia un gioco in cortile, la discussione di un film, una liturgia comunitaria o una camminata sulla spiaggia o in montagna. Animare è “dar l’anima”: ma dà l’anima solo chi nutre la propria (anima) con cura, riservandole energie e tempo per farla crescere, come fa il lievito nell’impasto. Animare non è dare movimento a qualcosa di inanimato, ossia compiere un artificio: è invece vivificare, mettere la vita al centro, rivitalizzare  – con la propria vita offerta – una situazione, un luogo, un gruppo o una attività che ha bisogno di aria nuova.  Eppure tanto un animatore di feste di compleanno quanto un animatore oratoriano usano spesso medesime tecniche. Dove sta la differenza? Negli occhi dei protagonisti la risposta!

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B COME BENE

Qual è contemporaneamente l’obiettivo e la modalità dell’animazione oratoriana in tutte le sue declinazioni, se non la parola BENE? Avere ben chiaro che il fine dell’animazione e il suo obiettivo generale è perseguire il Bene dei ragazzi con cui abbiamo a che fare, in tutto ciò che facciamo, è ciò che può meglio orientare ogni attività in oratorio. Se li facciamo gareggiare in un gioco, l’obiettivo non è tanto farli vincere, quanto educarli alla correttezza, alla lealtà, alla profusione del massimo impegno, al limite anche a saper perdere col sorriso sulle labbra. Se andiamo con loro in gita, il Bene di ciascuno di loro deve essere prioritario ad ogni nostra programmazione. Se dobbiamo fare qualcosa di impegnativo con loro, condividerne la fatica e motivarne l’entusiasmo è agire per il loro Bene. Se questo è l’obiettivo, anche la modalità con cui lo perseguiamo nelle nostre attività deve conformarsi ad esso. Se devo fare un cartellone, lo devo fare “bene”, con la giusta impostazione grafica, i giusti colori, magari imparando da qualcuno più esperto o coinvolgendolo nella realizzazione. Se devo proporre un canto, devo saperlo cantare e suonare bene io, e non pretendere che siano solo “loro” a cantarlo. Se programmo una passeggiata, devo preparare bene itinerario, contatti, cassetta d’emergenza. Anche se non si sceglie di farne una professione remunerata, e quindi non si persegue il professionismo dell’animazione, ciò non toglie che sia bene fare tutto con professionalità, il che comporta preparazione, meticolosità, gioco di squadra e aggiornamento continuo. Per citare Pelè in uno spot pubblicitario del 1976… “quando faccio qualcosa, mi piace farla bene”.

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C come COMUNICARE

Di fronte alla scena di un gruppo di amici intorno ad un tavolo, ciascuno impegnato a compulsare sul proprio smartphone senza minimamente rapportarsi con gli altri, diventa evidente come le nuove generazioni si trovino di fronte ad un’emergenza relazionale mai sperimentata prima, poiché indotta ed amplificata da un abuso delle nuove tecnologie. Siamo di fronte a prospettive di incompetenza comunicativa e di dipendenza e solitudine digitale a cui tuttavia si può e si deve far fronte. Lo stile educativo dell’animazione può diventare un’utile risorsa tanto per gli animatori quanto per i ragazzi a loro affidati, che vivono le medesime inabilità comunicative. L’animazione infatti impone la cura di una relazione educativa globale, costante, individuale, e un’interazione diretta, ispirata alla reciprocità e all’ascolto in ogni fase preparatoria e organizzativa. È proprio nelle riunioni preparatorie di una attività che il responsabile del gruppo animatori cura la conduzione della riunione educando i presenti a crescere in competenza comunicativa, migliorando anzitutto la qualità delle interazioni, l’empatia e la reciprocità – caratteristiche spesso carenti nelle interazioni digitali a cui ormai è affidata la maggior parte della cosiddetta socialità. La medesima consapevolezza di quanto sia influente nel suo esito la modalità – il “come” – della comunicazione orienterà poi gli animatori nella relazione comunicativa coi ragazzi in ogni attività proposta. È lo stile comunicativo dell’animazione che renderà i nostri oratori un laboratorio di socialità, di interazione, di interculturalità e di senso civico.

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D come DUE A DUE

L’animazione in oratorio, in ogni sua fase, non è affare da solisti. Il lavoro di squadra non ha solo una funzione pratica, ma anzitutto motivante, responsabilizzante e di formazione permanente. Il modello è quello proposto da Gesù ai suoi discepoli, che invia a due a due ad anticipare il suo arrivo. Lavorare in team evita pericolose tentazioni solistiche e autoreferenziali, per loro natura sterili e destinate allo sconforto o al disimpegno in caso di insuccesso. A tutti è successo di pensare “se lo faccio da solo è meglio”, obnubilati dall’illusione di poter avere tutto sotto controllo, ma è la complessità della vita e delle relazioni a farci sperimentare l’utilità di un rapporto di fiducia, di ascolto e di correzione fraterna con chi fa la stessa strada con noi. Indubitabile è l’opportunità del lavoro in team in fase creativa: anche quella che a me può sembrare (a ragione) anche un’idea poco efficace può suscitare in altri una catena di idee anche più brillanti (è il meccanismo associativo del brainstorm). In fase organizzativa e preparatoria qualunque attività (un gioco, un incontro di catechesi, una gita, un cerchio di gioia) il lavoro in team permette di redigere una efficace lista di controllo e di fabbisogno, e preventivare piani alternativi. Ma l’ambito in cui meglio di tutti si rivela proficuo il lavoro a due a due è quello direttamente operativo, durante la realizzazione dell’attività: c’è chi la guida e prende la parola, ma il resto del team provvede ad assicurarsi che ogni altra necessità sia assicurata e pronta, che quanto detto sia recepito  e compreso (feedback), che nessuno resti escluso per carenza d’attenzione. Anche solo in due, come i primi discepoli.

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E come EMOZIONE

Uno degli aspetti che distingue l’animazione in oratorio da quella commerciale è il suo impiego in ambiti che esulano dalla semplice attività ludica, e che fanno quindi dell’animazione non tanto un tipo di intrattenimento quanto uno stile e una modalità educativa. Fare una gita, impostare una discussione, un incontro di catechesi, condurre una serata informativa, un “cerchio di gioia”, una riunione di programmazione, perfino tenere un’omelia può diventare un’altra cosa se lo si fa con lo stile dell’animazione. Uno stile è anzitutto un atteggiamento, un  modo di interagire, un complesso meccanismo di stimoli e risposte, non è una bacchetta magica, né una formula da imparare ed applicare. Per acquisire uno stile ci vuole tanta osservazione, intelligenza, metodo e pazienza. Tuttavia esiste un passepartout che può ben orientarci nell’acquisire questo stile: l’emozione. Guarda dentro di te e scopri cosa la suscita in ciò che fai, in ciò che ascolti, in ciò che leggi. Scoprine le dinamiche, le motivazioni, il suo carburante. Poi desidera condividerla con gli altri: in quel preciso momento essa diventa colore, luce, sapore di tutto ciò che farai, proporrai o dirai. Da lì in avanti vestirà ogni tua invenzione, risuonerà in ogni idea, germoglierà in ogni discorso e in ogni gesto. La tua emozione attrarrà come una calamita quella di chi ti sta intorno e insieme risuoneranno “per simpatia” in tutto il gruppo. L’emozione diventerà veicolo dell’esperienza fatta, parabola della Parola annunciata, fissante nella memoria di chi l’ha vissuta, brace per chi vorrà accendere un nuovo fuoco; e di quel fuoco lo stile dell’animazione porterà le caratteristiche: luce, calore e un piacevole crepitìo.

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F come FATICA

Un lavoro in genere risulta faticoso se incontra resistenze. Per renderlo più efficiente bisogna rimuovere questi inutili freni. Anche nelle attività di animazione spesso incontriamo resistenze svantaggiose che ci affaticano: materiali insufficienti o scadenti, collaboratori poco motivati o non adeguatamente formati, condizioni atmosferiche inclementi, spazi o arredi inadeguati all’attività. Alcune di queste resistenze sono superabili, migliorando le condizioni. Ma sul pianeta terra non esiste un lavoro senza resistenza (senza l’attrito atmosferico neppure respireremmo!), e non esiste vera animazione senza fatica. La fatica fa parte del lavoro, e questo dato può risultare inaccettabile in chi cresce in una società edonistica dove si fa qualcosa solo se piace, ma se ciò  comporta fatica allora si molla tutto. Fare un’escursione, concorrere a una gara, anche fare una partita a calcetto comporta fatica, ma la bellezza o la piacevolezza della cosa rende lo sforzo superabile e sopportabile. Essere animatore ha delle fatiche intrinseche: un’attenzione differenziata in un percorso comune, l’accoglienza senza se e senza ma, la cura dei più piccoli, il duro lavoro della creatività nell’inventare o adattare giochi o feste, con i suoi tempi morti, le sue aridità e incomprensioni, diretto preludio della geniale accensione della lampadina: è la fatica della fantasia, nonostante questa tenda a spogliarsi – del duro lavoro che comporta – prima di tuffarsi nella soddisfazione, vestita solo di spontaneità pura. È la fatica del godere talvolta solo in differita del buon esito di una iniziativa appena conclusa, perché parte integrante di essa è pure il riordino di quanto usato.

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G come GESÙ, PAROLA 3D

Forse è bene ricordare, in un tempo in cui la concezione commerciale dell’animazione indica ai nostri adolescenti esempi di intrattenitori che per simpatia e successo mediatico assurgono come modello ispiratore delle attività in oratorio, che il modello più adeguato a cui ispirarsi è invece proprio il “provinciale” Gesù di Nazareth. E non tanto per l’ovvio riferimento religioso, ma principalmente per il suo stile educativo e in particolare comunicativo. Focalizzando per un poco questo aspetto, potremmo definirlo come il vero “educatore³”,  al cubo, o 3D: la Parola mai separata dall’azione, la Vita concreta (non quella virtuale!) sempre al centro – tanto nelle parole quanto nei discorsi; una concretezza trasparente nel suo stile parabolico, che dalla quotidianità porta alla trascendenza e da questa torna per condensazione alla vita concreta, in inviti diretti e coraggiosi (“anche tu fa lo stesso!”). Un Gesù che amava il convivio, lo stare con gli amici, la familiarità coi più piccoli, il “tirar tardi” con chi aveva bisogno di lui è il più diretto e semplice modello di come deve essere un animatore in oratorio. Un Gesù che non dice “faccio da solo che è meglio”, ma che ha fiducia nei suoi amici e li manda a due a due, che sceglie i suoi diretti collaboratori non necessariamente tra “i bravi ragazzi”. Uno che di fronte ad un emergenza educativa non rimette la responsabilità (congeda questa folla), ma se ne fa carico coinvolgendo gli altri (date loro voi stessi da mangiare). Le rubriche di tecniche d’animazione e i manuali di giochi di gruppo possono aiutarci molto, ma meditare sullo stile di Gesu-Parola può portare molto più frutto!

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H come HELP

Quando si impara ad usare una nuova app o un programma complesso su pc, tre sono le possibilità di affrontare le difficoltà iniziali: la prima è quella di studiarne approfonditamente tutte le istruzioni, col rischio di essere pronti ad usarla quando non ce n’è più bisogno, la seconda è quella di lanciarsi allo sbaraglio sulla base di quanto si sa già, supponendo di essere in grado di cavarsela – e qui il rischio è di non imparare niente e di far male; la terza è di farsi aiutare da una guida in linea, da un tutorial, da qualcuno che già conosce quel programma. Questa terza opzione è quella preferibile anche per gli animatori in ciò che fanno in oratorio. Qui la tecnologia ci aiuta molto e ci permette di trovare soluzioni interessanti – anche se “precotte” – per le nostre attività. Molto meglio il contatto diretto con animatori di altri oratori – e in questo il servizio diocesano gioca la sua parte, e talvolta anche con altre agenzie – purchè ci si ricordi sempre della peculiarità dell’animazione oratoriana rispetto a quella commerciale. In ogni caso l’aiuto e il suggerimento deve essere sempre calato nella situazione specifica, reale, locale: un gioco pensato per spazi aperti e grandi numeri non può evidentemente funzionare in un salone senza adeguamenti opportuni. Saper cucinare non vuol dire avere sullo smartphone la app del Gambero Rosso. Analogamente non esiste il ricettario dell’animazione, altrimenti la FOM l’avrebbe già pubblicato e tutti gli oratori ne avrebbero già una copia. Ma avere l’umiltà di prendere spunto  e poi rielaborare sensatamente esperienze altrui può certo fare la differenza.

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I come INCLUSIONE

Se voglio proporre la partecipazione a un coro, o a una squadra di calcetto, o a un gruppo teatrale sono quasi inevitabilmente portato a fare un’audizione, una selezione, un provino. Tutto bene, ovvio, ma c’è sempre il rischio di escludere qualcuno: lo stonato, il “brocco”, lo smemorato o il balbuziente. Anche in queste nobili attività si nasconde il rischio di essere condizionati della cultura dello “scarto” – come la definisce Papa Francesco. Ben diverso è l’atteggiamento proposto nello stile dell’Animazione, che ha tra i suoi principi proprio quello di mettere al centro la persona, e quindi di includere anziché escludere. E ciò vale in particolar modo oggi, quando la tentazione di chiudere fuori dal cancello i “diversi” o i “problematici” si fa strada anche nelle nostre parrocchie. Lo stile dell’inclusione mette al centro il ragazzo di colore che magari non sa una parola di italiano, ma è capace di insegnare un ballo hip hop, o l’adolescente sconclusionata e un po’ “nerd”, ma che è una maga dell’ origami o dei giochi di prestigio. L’inclusione parte dalla valorizzazione di queste potenzialità, ma non si ferma lì: l’abbraccio è della persona e della sua vita, non solo della sua abilità o della sua funzione nel gruppo. Un atteggiamento inclusivo comporta certo fatica in più, specie coi ragazzi più problematici, ma porta molto più frutto, tanto per chi è accolto, quanto per il gruppo nel quale chi è accolto viene valorizzato: l’inclusività vissuta educa infatti all’apertura mentale, all’empatia, all’elasticità, molto più in là di un buonismo di maniera: spesso questo si tira dietro dell’inutile permissivismo, che nulla ha a che fare con l’accoglienza evangelica.

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J come JOLLY

Un’attività di animazione complessa come una sfilata di carnevale, una festa o una vacanza comporta la necessità di un’accurata pianificazione dei tempi, una suddivisione degli incarichi sulla base delle distinte abilità nel gruppo animatori, una lista di controllo del materiale occorrente stabilito per ogni fase dell’attività. Abituare il gruppo a questo metodo di progettazione che parte dall’analisi della situazione, all’individuazione di obiettivi generali e intermedi, e quindi agli strumenti necessari per conseguirli, arricchirà ciascuno e l’intero gruppo di un’abilità, che si dimostrerà preziosa anche in altri ambiti. Tuttavia ciò che nessuna progettazione può pienamente stabilire sono gli imprevisti, le situazioni di emergenza, i malfunzionamenti contingenti. Per questo è necessaria la presenza nel gruppo di un surplus di versatilità, di attenzione ad esigenze estemporanee, di sensibilità ai segnali di sofferenza o di disagio, e di conseguenza alle risorse aggiuntive necessarie a farvi fronte. Un po’ come il jolly nelle carte, utile a sopperire quando serve alle nostre indisponibilità. In questo senso va coltivata nel gruppo la versatilità di alcuni componenti, o la presenza di ruoli non assegnati, ma capaci di sopperire ad eventuali carenze. Attenzione: jolly, non “riserve” a disposizione; “liberi”, non “panchinari”. Anche nella pianificazione è sempre opportuno prevedere un “piano b”, qualora per qualche motivo l’attività principale non fosse praticabile, o un cover set – come si dice in cinematografia, quando il set principale all’aperto risultasse impraticabile. E anche dell’alternativa prevedere i necessari strumenti.  

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K come KNOW HOW

La formazione dell’animatore non può limitarsi alla conoscenza di tecniche di animazione, di prontuari di giochi, di metodi pedagogici. Tutte conoscenze utili, ma non sufficienti ad aumentare la sua competenza. L’animatore d’oratorio deve percorrere un itinerario dal “sapere” al “sapere come”. Il tipo di competenza che gli servirà non sarà tanto quella generata da letture, corsi, conferenze, ma dal sapere pratico, dalla tradizione orale e dalla sperimentazione diretta. L’apporto delle nuove tecnologie deve temperarsi con l’apprendistato, l’ “andare a bottega” da chi è stato animatore prima di te, o insieme a te, magari in un altro oratorio (anche se  tutorial in rete potrebbero comunque essere una strada da percorrere). È una competenza che si fonda sullo scambio di esperienze, sui laboratori pratici, sulla condivisione di esperienze e materiali. Nei decanati dovrebbe diventare consueto non solo la condivisione di momenti di formazione degli animatori, ma anche quella dei magazzini, poiché spesso è rintracciabile negli  strumenti e nei materiali ciò che cristallizza e veicola la competenza e le esperienze di generazioni di animatori. Per fare un esempio: vale molto di più partecipare ai laboratori di presentazione del carnevale ambrosiano, che non acquistare per tutti gli animatori il sussidio che lo presenta. La competenza acquisita con lo scambio esperienziale non è d’altronde un patrimonio statico e acquisito definitivamente: ciò che la rende sempre nuova ed efficace è il vaglio della verifica, che come per ogni attività propria di un progetto educativo deve essere prevista, attuata e verbalizzata, per poter diventare punto di partenza di successive esperienze.

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L come LABORATORIO

Uno degli ambiti dove meglio si esplicita la valenza educativa dell’animazione in oratorio è quello dei laboratori. L’equivoco più comune è considerarli solo come un’attività accessoria o preparatoria ad altre azioni principali come il gioco o la catechesi, di cui invece sono parti fondamentali, almeno dal punto di vista educativo. Il lab-oratorio – così andrebbe scandito – è lo spazio dove ogni ragazzo ha la possibilità di sentirsi protagonista e non solo destinatario dell’azione altrui, l’occasione in cui sperimenta direttamente la fatica e la bellezza della collaborazione con gli altri, in un tempo in cui la cultura dominante individualista ci spinge a giocare da solisti. Nel contempo è il luogo dell’espressività personale in un mondo che tende al conformismo e al pensiero unico. Nel lab-oratorio la relazione di cura tra animatore e ragazzo vive uno dei momenti più significativi, poiché diretta e particolare: per questo risulta anche uno dei momenti più delicati, in cui bisogna dare più importanza alla qualità che alla quantità del lavoro; il fine non deve essere primariamente il prodotto, ma la modalità del processo elaborativo poiché è in esso che si sviluppa l’azione educativa. D’altra parte se la modalità del laboratorio è adeguata, anche l’elaborato finale lo sarà. Viceversa, se presto più attenzione al prodotto, a costo di farlo io, avrò forse realizzato uno splendido costume o un bellissimo murales, ma non avrò dato spazio al ragazzo e alla sua espressività. Nel lab-oratorio l’animatore accompagna, indirizza e supporta l’attività del ragazzo ma non lo sostituisce. E anche un’attività apparentemente materiale diventa parabola di significati e valori profondi.

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M come MANUALITÀ

Recenti studi di neurologia pediatrica rilevano quanto sia deleterio per lo sviluppo mentale del bambino l’abuso di videogiochi e smartphone, a diretto discapito di altre attività formative o ludiche che abbiano maggiormente a che fare con la fisicità. Riportare la manualità e il “fare” all’interno di un percorso pedagogico è una delle sfide che nelle nostre città proprio gli oratori possono rilanciare. L’azione concreta si fa veicolo diretto o parabolico persino di valori e di relazioni sociali reali e non virtuali, e quindi ben si compone nel progetto educativo dell’Oratorio, fatto di giochi, di laboratori, di attività di servizio e di volontariato, creative, teatrali, musicali, artistiche e sportive. Certo si tratta di un lavoro controcorrente  e più faticoso rispetto al millennio scorso, in cui il “senso pratico” era più istintivo: talvolta è una scelta che impone già tra gli animatori una formazione specifica che li faccia passare da “io questo non lo so fare” a “si può fare” e infine a “se l’ho fatto io , ce la puoi fare anche tu”! La sintesi più efficace di quanto la manualità sia fondamentale nello stile educativo dell’animazione ci è stata donata da Papa Francesco nel suo incontro con i Cresimandi  allo stadio Meazza di Milano lo scorso 25 marzo 2017: “Io consiglierei un’educazione basata sul pensare-sentire-fare, cioè un’educazione con l’intelletto, con il cuore e con le mani, i tre linguaggi. Educare all’armonia dei tre linguaggi, al punto che i giovani, i ragazzi, le ragazze possano pensare quello che sentono e fanno, sentire quello che pensano e fanno, e fare quello che pensano e sentono. Non separare le tre cose, ma tutt’e tre insieme”.

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N come NOMI

Ciò che del proprio animatore più stupisce e affascina un ragazzo è che questi ti chiami per nome (o soprannome): viceversa, ciò che più crea distanza e fa apparire l’animatore un prestatore d’opera qualunque, all’interno di un area di “parcheggio” baby sitting è proprio l’uso di appellativi generici o peggio ancora collettivi. Memorizzare un gran numero di nomi non è impossibile, ma certo richiede uno sforzo ed esercizio costante: talvolta neppure gli insegnanti riescono a conseguire il risultato in breve tempo. Eppure chiamare per nome fa la differenza: è segno di cura, di attenzione proprio a questa persona e alla sua storia. Ciò vale in particolar modo in un gruppo, in cui ciascuno si sente chiamato per nome: è infatti segno della prossimità della comunità verso ciascuno dei suoi membri: in breve tempo infatti anche tra i ragazzi diventerà facile  e naturale memorizzare anche i nomi di chi si vede solo saltuariamente, e il sentirsi chiamato per nome non sarà solo attribuibile alla “bravura” dell’animatore, ma allo stile di accoglienza che deve permeare ogni relazione in oratorio. Viceversa l’animatore che si rivolge al gruppo in maniera collettiva e non personale mette se stesso al centro (è l’unico ad essere chiamato per nome), e non crea quell’humus di relazioni personali che fanno squadra e senso di appartenenza. Sentirsi chiamato per nome non solo aumenta il senso di accoglienza, ma anche quello di corresponsabilità, perché fa uscire dall’anonimato e rende ciascuno responsabile in prima persona di ciò che fa. Più aumenta il senso di corresponsabilità e  più aumenta la cura dell’ambiente comune, che diventa anche “affar tuo”, se sei chiamato per nome.

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O come OVVIO

Cos’è animazione? Ovvio: è far giocare i bambini. Chi fa l’animatore in oratorio? Ovvio: sono gli adolescenti. Chi si deve occupare della pulizia degli spazi in oratorio? Ovvio: i grandi. Pare che intorno all’animazione nei nostri ambienti sia tutto chiaro, dato per scontato, assodato, stabilito, definitivo e senza variazioni. Eppure se scavassimo a fondo nella parola OVVIO scopriremmo in ciò che ci appare tale delle prospettive ricche di sviluppo. Ovvio è “ciò che mi si fa incontro per via” e mi si para davanti in tutta la sua evidenza. Ciò che incontro per via… quindi in me, Chiesa in cammino, che non sta ferma dietro un cancello o un muro di cinta, è quell’incrocio sì quotidiano, ma irripetibile e unico, quell’occasione di incontro, di dialogo, di gioco che non avevo in mente e di cui forse neppure mi rendo conto, e che magari resterà scolpita nella memoria di quel ragazzo, nella vita di quella adolescente. È proprio nella quotidianità più consueta che si possono aprire varchi per l’azione dello Spirito. Di fronte alle cose ritenute ovvie siamo sempre pronti a scavalcarle, a ritenerle indiscutibili e quindi non degne di ulteriore riflessione: eppure è in quelle occasioni che si aprono percorsi e strade nuove; allora lo stile dell’animazione travalica lo spazio di gioco e sfocia nella catechesi o nella preghiera, o la vacanza diventa viaggio interiore e occasione di rinnovate relazioni. E pure quando nulla di nuovo si presenta, e tutto è dato per scontato, magari finito e concluso, qualcuno per strada mi si fa incontro, mi cammina accanto, mi fa vedere in modo diverso ciò che ho appena vissuto… poi si ferma con me a cena, come per i due di Emmaus…

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P come PRESENZA

Suscita sempre molta meraviglia il numero di animatori presenti durante l’oratorio estivo o in particolari periodi dell’anno, specie se rapportato al numero più esiguo durante il tempo ordinario, in cui altri impegni scolastici o sportivi riducono il tempo a disposizione di adolescenti e giovani. Ma non è la presenza numerica – seppure importante – la vera priorità nella formazione di un animatore. Non ci sono cartellini da timbrare in oratorio o tessere punti da riempire, visto il carattere oblativo di questo servizio. È il tipo di presenza ciò che va curato. Non conta tanto “esser lì” quanto “esser-ci”, essere per qualcuno, essere per noi che siamo qui, in oratorio. Andare in oratorio, anche quando non ci sono attività programmate, e sapere che un animatore c’è sempre lì per me, che magari non ho potuto partecipare alla gita, fa la differenza. Il tempo informale, il tempo del cortile è il tempo abitato – anche se non organizzato – dall’animatore che c’è già lì anche per me. Una presenza disponibile, piacevole, non anonima, conosciuta, che ascolta. L’animatore non dovrebbe dire: “Ciao mamma, vado in oratorio” ma “ciao mamma, sono in oratorio”. L’esserci in oratorio è molto più che una presenza funzionale, operativa: è esser lì con tutte le nostre potenzialità, capacità, idee, gusti, attenzioni, hobby, con la nostra musica, con ciò che ci fa ridere, piangere, arrabbiarci, divertirci: esserci, essere per. Il ragazzo o la ragazza che ci incontra al supermercato non deve riconoscerci per il nostro incarico in oratorio, ma per la nostra persona. Ecco perché la presenza educativa dell’animatore non può essere con riserva, parziale, percentuale, virtuale e tantomeno a “prestazione occasionale”.

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Q come Q.I.

Nella memoria dei più attempati è rintracciabile il pregiudizio spesso diffuso nelle nostre Parrocchie per il quale, se un ragazzo dimostrava grande intelligenza, lo si indirizzava a fare il catechista, se lo era un po’ meno, a fare l’arbitro sul campetto.  Fortunatamente oggi il discernimento è un poco più raffinato e si riconosce che un buon quoziente intellettivo è fondamentale, soprattutto per chi viene chiamato a essere animatore in oratorio. Il punto è capire di che tipo di intelligenza si tratta, e se è adeguata e sufficiente per chi vuole fare animazione. Credo infatti sia necessario per l’animatore come per ogni altro profilo educativo, coltivare queste tre abilità: intelligenza di sé, intelligenza dell’altro, intelligenza della situazione. La prima è la capacità di sapersi onestamente leggere dentro, per verificare costantemente le proprie motivazioni, i propri limiti, le proprie potenzialità. A questa capacità intuitiva non può non corrispondere la capacità di non fermarsi ad un giudizio superficiale nei confronti di coloro con i quali entriamo in relazione, siano essi i più piccoli o gli altri animatori, maturando insieme a questo tipo di intelligenza anche una sensibilità empatica che ci permetta di intuire la reazione alle nostre azioni. La terza intelligenza ha invece un’ottica panoramica, e ci permette di leggere con uno sguardo ampio le reazioni collettive, il contesto dove si svolge l’attività di animazione, e le sue variabilità contingenti, di fronte alle quali solo uno sguardo aperto e intelligente permette, ove opportuno, di modificare quanto si era precedentemente programmato, a vantaggio di un miglior esito dell’iniziativa.

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R come ROBINSONISMO

Molto tempo prima che le tre R ecologiche – RIUSO RECUPERO RICICLO diventassero parole d’ordine dell’emergenza ambientale, l’educazione al riutilizzo creativo di oggetti nati per altra funzione, il recupero di materiali poveri e il loro reimpiego nella creazione di oggetti, maschere o costumi di altissima qualità manifatturiera, sono stati i pilastri fondanti di uno stile educativo che gli Oratori Milanesi hanno sposato, mutuandolo dai Parchi Robinson del secolo scorso, e che la FOM ha sempre sintetizzato col termine ROBINSONISMO, parola inesistente nel vocabolario italiano, ma presente in quello spagnolo, che definisce “uno stile di vita improntato a quella di Robinson Crusoe”, il naufrago sopravvissuto dell’omonimo romanzo di Defoe. In effetti gli oratori del secondo dopoguerra non avevano le disponibilità di mezzi che si hanno ora. All’acquisto di strumenti di gioco preconfezionati si preferiva la loro costruzione, magari recuperando rottami in qualche soffitta o scarti di lavorazione nelle piccole aziende sotto casa. Scegliere oggi uno stile robinsoniano nelle attività di animazione non è più far di necessità virtù, ma una scelta di sobrietà, di essenzialità, di fiducia nella creatività del singolo e del gruppo, di amore e passione nel lavoro comune, di cura di ciò che il mondo “scarta”, di profezia nei confronti della mentalità dell’“usa e getta”. E una serie di scatoloni diventa un castello, tubi di plastica si fanno strumenti musicali, vecchi giornali con acqua e colla vinilica diventano draghi tenebrosi da combattere a colpi di pennelli intinti in avanzi di tinta da parete colorata. E anche l’Ambiente ringrazia per risorse non sprecate!

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S come SERVIZIO

Perché anche quest’anno voglio fare l’animatore? Perché lo fa anche la mia amica. Perché ho uno sconto sulle gite in oratorio. Perché me l’ha detto il Don. Perché la mia scuola lo valuta come credito formativo. Perché così riesco a vedere più spesso quella tipa che mi piace. Tante, differenti e non sempre disinteressate possono essere all’inizio le motivazioni che spingono un adolescente a fare l’animatore in oratorio. Presto però le motivazioni più banali si indeboliscono e vengono a mancare, e con esse anche la voglia di dedicare tempo in oratorio. Così continuano a fare animazione due tipi di adolescenti: quelli abitudinari e rassegnati, che temono ogni variazione nella loro agenda, ma non si impegnano più di tanto e quelli che invece lo fanno per servizio, sulle orme di Gesù. Il Servizio è innescato dalla reciprocità (quando ero piccolo i più grandi in oratorio mi facevano giocare, guidavano i canti con la chitarra, mi portavano lo zaino troppo pesante quando ero sfinito… ora tocca a me), ma poi si autoalimenta, anzi, si alimenta della Parola a cui si abbevera. Da motivazione il servizio si fa stile, respiro (che è azione indipendente dalla volontà, tanto è legata alla vita), postura (atteggiamento connaturato che ci identifica e distingue). E tuttavia resta sempre una scelta controcorrente, specie oggi in cui il termine servo ha un’accezione negativa (“non sono mica il tuo servo”). Eppure basterebbe ricordare un vecchio slogan circolante in FOM nel millennio scorso: in oratorio CHI SERVE, SERVE; CHI NON SERVE, NON SERVE; la differenza tra una presenza nello stile del servizio e quella priva di un impegno oblativo si manifesta nell’utilità della prima e nell’inutilità della seconda.

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T come TUTTI, attenzione a

L’oratorio non è né una associazione, né un club privato, in cui entrano solo gli iscritti,  ma tantomeno un parcheggio o una piazza anonima, spazio pubblico di tutti e di nessuno. Dovessimo trovarne una metafora architettonica potremmo forse definirlo come il quadriportico della Basilica di S.Ambrogio, spazio aperto, ma ben identificabile, propedeutico all’annuncio evangelico e all’accoglienza nella comunità. Il progetto educativo dell’oratorio si sviluppa infatti in itinerari differenziati a seconda dell’età, degli interessi e della consapevolezza spirituale di chi lo frequenta. Ecco perché è fondamentale l’attenzione a tutti quanti magari solo si affacciano nel suo cortile. Non soltanto l’accoglienza e l’ospitalità – già trattata definendo il carattere inclusivo dell’animazione, ma della priorità di un’attenzione orizzontale, rivolta a tutti e a ciascuno. Qui si rivela l’altissimo grado di maturità cui deve mirare la formazione degli animatori: per avere attenzione a tutti e a ciascuno bisogna saper trovare per ogni fascia d’età il linguaggio adatto, modulare ogni proposta in modo tale da non escludere nessuno, saper affascinare tanto chi conosce già l’ambiente quanto chi è la prima volta che ci mette piede, superare la naturale tendenza ad occuparci di chi già conosciamo, imparare a rivolgersi anche a chi sta all’ultima fila. Come è possibile orientare ad una simile maturità di attenzione un giovanissimo animatore? Anche qui dipende da quanto i responsabili avranno attenzione a tutti gli animatori del gruppo e a ciascuno di loro: con la stessa misura con cui ci rivolgiamo a loro, altrettanta ne sapranno usare.

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U come UGUAGLIANZA DIFFERENZA

Un animatore in oratorio non può fare differenza nel rapporto coi ragazzi – nonostante le istintive simpatie o antipatie: a tutti deve offrire le medesime opportunità, la medesima cura e attenzione; a costo di dover ipotizzare e realizzare differenti livelli di partecipazione alle medesime attività. I più piccoli mi sono stati affidati all’interno di un patto educativo tra la famiglia e la comunità parrocchiale in oratorio e questa responsabilità mi impedisce di fare discriminazioni  o avere preferenze basate sulle condizioni sociali, sulla provenienza o sulla simpatia del ragazzo. Nello stesso momento tuttavia è il medesimo patto educativo che mi chiede di prestare particolare cura magari proprio a quel ragazzo “difficile” e – se il caso – a dedicargli una differente attenzione, una particolare modulazione nel rapporto con lui, un incoraggiamento o un rimprovero quando serve nei tempi e modi opportuni. Non abbiamo a che fare con numeri, ma con persone: tutte uguali nei bisogni e nei diritti, tutte diverse nel tipo di relazione richiesta, a seconda delle occasioni. Qualcosa di simile avverrà in chi dovesse poi diventare genitore: ai propri figli donerà indistintamente tutto il proprio affetto, ma declinato in modi tempi e misure differenti a secondo delle loro esigenze. Ed essere stato animatore in oratorio sarà stata la prima occasione per maturare quel tipo di attenzione differenziata nei tempi e occasioni differenti che da genitori è richiesta nella relazione coi figli, e che anche più in generale è richiesta ad ogni adulto che ha relazione coi giovani da allenatore piuttosto che da insegnante o da educatore professionale.

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V come VACANZA

La vacanza comunitaria è uno dei tempi privilegiati dell’animazione. Talvolta ne è purtroppo l’unico  e per questo magari un po’ improvvisato. Tanto per intenderci: un animatore che pensa di esserlo solo perché accompagna un gruppo di ragazzi sette giorni in montagna e pensa di fare “una settimana di vacanza”, forse ha ancora bisogno di chiarirsi le idee. Condividere una settimana 24 ore su 24 con un gruppo di ragazzi è una delle esperienze di servizio più esaltanti ma anche più impegnative e fisicamente faticose che possano capitare ad un adolescente: tutt’altro che una vacanza. Ma è proprio lì che si può comprendere a pieno cosa significhi intendere l’animazione come “stile educativo dell’oratorio”: ogni dimensione, tempo, spazio della vacanza, dalla quotidianità della sveglia, dei pranzi, della pulizia del campo e della casa, all’eccezionalità della gita, del gioco, della preghiera, è modulata secondo un filo conduttore, colorata, sonorizzata, musicata. Anche il tempo informale è vissuto in condivisione, in uno spazio di cura, di relazione individuale, di spirito di gruppo. Sono tutte dimensioni che abbiamo già incontrato, ma con alcune varianti importanti: la continuità, la disponibilità e la “extraterritorialità”. In quei sette giorni non c’è tempo per riposare se non qualche ora di notte, anche il tempo libero richiede la tua disponibilità e la tua attenzione, soprattutto nei confronti dei più piccoli. Il suo svilupparsi fuori dalle mura dell’oratorio, se da un lato carica d’entusiasmo, dall’altro deve essere stimolo a riportare poi anche nella quotidianità il medesimo stile: una vera e propria “full immersion” di animazione non può giocarsi solo in trasferta!

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W come WWW E NUOVE TECNOLOGIE

Di fronte alla pervasività di internet in ogni tipo di attività e alla onnipresenza  dello smartphone in ogni anfratto della vita vigile di ciascuno, non può non destare apprensione la correlata e progressiva difficoltà relazionale delle nuove generazioni spesso intuibile dalla loro “ottusità” comunicativa e conseguente “solitudine digitale”. Così la descrive il neuropsichiatra M. Spitzer, commentando per esempio la foto di un convivio tra amici dove ciascuno sta compulsando il proprio telefonino senza la minima relazione con i compagni di tavolo. Forse l’oratorio di domani dovrebbe agevolare spazi o tempi liberi da questa ossessione (che ormai studi approfonditi definiscono come una vera e propria dipendenza), proprio come esistono spazi dove non si può bere o fumare, non tanto per il danno arrecato ad altri, quanto per offrire reali spazi di comunicazione interpersonale reale e non solo virtuale. Nello stesso tempo tuttavia lo stesso strumento dia-bolico (di separazione) e in generale il WEB può essere strumento ideale ed efficace per mettere in rete  idee, suggerimenti, strumenti, suoni o immagini utili per ogni attività di animazione. Basta sempre aver chiaro l’obiettivo: il bene di ogni ragazzo, e quindi come realizzare, al meglio di quanto è nelle nostre possibilità, l’attività che ci è stata assegnata.  La prudenza e la temperanza (veri cardini di valori anche nel terzo millennio) semplicemente impongono che l’uso di tali device sia strumentale e non debordante rispetto all’attività che devono agevolare. In fin dei conti è lo stesso criterio usato nel millennio scorso: allora in tasca e fra le dita dei ragazzi non c’era lo smartphone, ma un coltellino svizzero.

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Y come YES, WE CAN
Spesso l’entusiasmo, la creatività, la voglia di fare tipica dell’età degli animatori più giovani si scontra con le inerzie di una struttura variegata e complessa come l’oratorio, e più in generale col principio di realtà, crudamente messo in luce dai responsabili o dai più cinici anche se giovani: magari l’idea è buona, ma “si potrà realizzarla?…  e quanto costa un lavoro del genere…  non è che a metà vi sopraggiunge un impegno scolastico e mollate tutto senza concluderlo?”. Oppure: “siamo certi che verrà apprezzata?… E cosa diranno i genitori?… e il Don sarà d’accordo?”. Eppure talvolta dovremmo pensare a quella giornata sulle rive del Mar di Galilea, in cui lo stesso principio di realtà spinse gli apostoli a consigliare Gesù a congedare la folla: noi dovremmo invece metterci più spesso nei panni di colui che tra loro – contro ogni buon senso – disse “C’è qui un ragazzo con cinque pani e due pesci…” Se mettiamo davvero al centro lo stile relazionale di Gesù nelle nostre attività di animazione non possiamo essere parsimoniosi e avari della fiducia che gli animatori più giovani ci chiedono. Una fiducia che non li lascia soli, con le mani in mano e due pesci nella sporta, ma che li accoglie con quanto hanno da offrire, a cui possiamo sempre aggiungere i cinque pani che abbiamo con noi. “Sì, si può fare” deve essere a priori la risposta da offrire alle loro idee, che vanno poi accompagnate, elaborate, realizzate, magari in modo un po’ diverso rispetto al progetto iniziale, ma sempre in un processo che li veda protagonisti. E’ uno stile che gli stessi animatori impareranno poi a replicare coi ragazzi più piccoli, coscienti che “è loro il Regno dei Cieli”.

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Z come ZOOM IN – ZOOM OUT

Se dovessimo cercare una metafora cinematografica per descrivere lo stile dell’animazione, ai più scettici potrebbe venire in mente il flashback, come se fosse un metodo sorpassato e solo da ricordare. Ad altri più superficialmente l’insieme degli “effetti speciali”, come se si trattasse soltanto di interventi accessori ed estetici. Forse però la metafora migliore è quello dei movimenti dell’ottica necessari per la ripresa e il discorso cinematografico. Un animatore deve saper “mettere a fuoco”, cioè liberarsi dai vincoli del proprio punto di vista per intendere meglio collaboratori e destinatari delle proprie azioni. Deve saper aprire e chiudere il diaframma per dare l’esposizione giusta, ossia riuscire a vedere e far vedere anche nelle situazioni di oscurità, saper “mettere in luce” i talenti di ciascuno, o gli aspetti positivi in una situazione complessa. Ma soprattutto deve saper usare correttamente la lunghezza focale, ossia lo zoom, in entrambi i suoi movimenti. E’ importante infatti sapersi concentrare, in ogni fase della realizzazione dell’attività, sulla cura dei dettagli, che rendono più bella, efficace e gradevole ogni esperienza di gioco, di servizio o di preghiera. Anche coi ragazzi è importante sapersi concentrare su ciascuno di loro, e sulle specifiche peculiarità ed esigenze; tuttavia è bene anche imparare ad usare un’ottica differente e muovere lo zoom al contrario, per riuscire ad allargare il campo, per comprendere l’insieme del gruppo e coglierne le sue dinamiche complessive. Saper muovere l’attenzione dal dettaglio all’insieme, e viceversa, permette di modulare costantemente quanto progettato in funzione di un miglior risultato.

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