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In scena

MiTo, fascino misterioso del Giappone

A Milano gli spettacoli di Teatro N�, espressione di una forma artistica raffinata e stilisticamente perfetta, ma forse non del tutto comprensibile per lo spettatore occidentale non "iniziato"

di Giovanni GUZZI Redazione

25 Settembre 2009

«Uno spettacolo ogni dieci anni». Questa – secondo il commento di uno spettatore che aveva appena assistito all’apertura della sezione di MiTo 2009 Tradizioni del Giappone, orecchiato in metropolitana – la dose di Teatro Nō compatibile per un appartenente alla cultura occidentale. In effetti, per chi, intervenuto al Crt Teatro dell’Arte, non avesse già avuto esperienza di questa antica forma teatrale, lo spettacolo La misura del gesto è stato, a dir poco, spiazzante.
«Non capirai niente – ci era stato detto -. Però vedrai costumi bellissimi, grande eleganza e raffinatezza». Confermiamo. Paradossalmente, per noi “profani” che fatichiamo a comprenderne i tempi dilatati all’estremo, Nō significa “azione”. Ed è, questa, una poetica forma d’arte totale che riunisce in sé testi lirici, canto, danza, mimo e musica, analogamente all’antico teatro greco che a sua volta, se rappresentato al modo delle origini, oggi risulterebbe anch’esso di non facile godimento per il pubblico contemporaneo.
Il Nō è un divertimento raffinato che si sviluppa dall’aggregazione di danze più antiche nell’era degli Shōgun, i “comandanti in capo” dell’aristocrazia militare dei Samurai dal XIV al XVI secolo. È interpretato esclusivamente da uomini anche per i personaggi femminili, come nel dramma rappresentato a Milano Il Santuario nella Landa, la giovinezza della cui protagonista era evidenziata agli spettatori dalla lunghezza delle maniche del suo costume.
Quello della lunghezza delle maniche, che si accorciano in proporzione all’età crescente delle donne rappresentate, è un esempio dei codici che lo spettatore dovrebbe conoscere per potere apprezzare al meglio questa arte, ancora oggi fedele simbolo di una tradizione immutabile. A essa fanno riferimento anche i rigidi principi che obbligano la solennità ieratica dei gesti dell’attore sul palco. Il pubblico del Crt ne ha constatato gli effetti vedendolo inclinare la testa perché la luce potesse disegnare sulla sua maschera l’espressione e l’emozione che voleva trasmettere, nei passi lenti dell’entrata o accelerati dell’uscita di scena, nel modo di impugnare l’immancabile ventaglio col quale disegnava forme astratte nello spazio teatrale privo di scenografia.
A essa obbediscono anche i musicisti e il coro, tutti in ginocchio e rigidamente immobili rispettivamente posizionati sul fondo della scena e sulla destra del palco. Il coro, costituito da tre elementi, col canto (Utai) commentava le azioni e sosteneva la voce del protagonista. I musicisti, invece, assolvevano una funzione essenzialmente ritmica, di cui è stato detto che deve «spiare i passi dell’interprete, assecondandoli», sfruttando le melodie acute del flauto (Fue), poco accessibili a orecchie abituate alla musica tonale, e la percussione “quasi religiosa” dei tamburi da spalla (Kotsuzumi) o da anca (Otsuzumi), quasi ossessivamente accompagnata da un continuo suono gutturale caratteristico per ciascuno dei due strumenti e, forse, elemento più difficile da “digerire” fra tutte le particolarità di questo Teatro.
In definitiva, più che coinvolgente, questo “assaggio” di Nō è stata un’interessante offerta culturale di eccellente valore, testimoniata dal prestigio della compagnia Sankyokai che, dal 2002, è stata dichiarata “patrimonio nazionale vivente” del Giappone. Quanto di meglio si potesse avere per conoscere un’arte sempre in tensione, ma esercitata con una perfezione stilizzata d’estremo equilibrio portata fino al limite dell’astrazione. Fatto che ha un po’ sconcertato il pubblico: gli applausi, titubanti per la difficoltà di comprendere il momento giusto per manifestare la propria approvazione, sono stati anch’essi elegantemente “ritenuti” e non proprio entusiasticamente scroscianti. «Uno spettacolo ogni dieci anni». Questa – secondo il commento di uno spettatore che aveva appena assistito all’apertura della sezione di MiTo 2009 Tradizioni del Giappone, orecchiato in metropolitana – la dose di Teatro Nō compatibile per un appartenente alla cultura occidentale. In effetti, per chi, intervenuto al Crt Teatro dell’Arte, non avesse già avuto esperienza di questa antica forma teatrale, lo spettacolo La misura del gesto è stato, a dir poco, spiazzante.«Non capirai niente – ci era stato detto -. Però vedrai costumi bellissimi, grande eleganza e raffinatezza». Confermiamo. Paradossalmente, per noi “profani” che fatichiamo a comprenderne i tempi dilatati all’estremo, Nō significa “azione”. Ed è, questa, una poetica forma d’arte totale che riunisce in sé testi lirici, canto, danza, mimo e musica, analogamente all’antico teatro greco che a sua volta, se rappresentato al modo delle origini, oggi risulterebbe anch’esso di non facile godimento per il pubblico contemporaneo.Il Nō è un divertimento raffinato che si sviluppa dall’aggregazione di danze più antiche nell’era degli Shōgun, i “comandanti in capo” dell’aristocrazia militare dei Samurai dal XIV al XVI secolo. È interpretato esclusivamente da uomini anche per i personaggi femminili, come nel dramma rappresentato a Milano Il Santuario nella Landa, la giovinezza della cui protagonista era evidenziata agli spettatori dalla lunghezza delle maniche del suo costume.Quello della lunghezza delle maniche, che si accorciano in proporzione all’età crescente delle donne rappresentate, è un esempio dei codici che lo spettatore dovrebbe conoscere per potere apprezzare al meglio questa arte, ancora oggi fedele simbolo di una tradizione immutabile. A essa fanno riferimento anche i rigidi principi che obbligano la solennità ieratica dei gesti dell’attore sul palco. Il pubblico del Crt ne ha constatato gli effetti vedendolo inclinare la testa perché la luce potesse disegnare sulla sua maschera l’espressione e l’emozione che voleva trasmettere, nei passi lenti dell’entrata o accelerati dell’uscita di scena, nel modo di impugnare l’immancabile ventaglio col quale disegnava forme astratte nello spazio teatrale privo di scenografia.A essa obbediscono anche i musicisti e il coro, tutti in ginocchio e rigidamente immobili rispettivamente posizionati sul fondo della scena e sulla destra del palco. Il coro, costituito da tre elementi, col canto (Utai) commentava le azioni e sosteneva la voce del protagonista. I musicisti, invece, assolvevano una funzione essenzialmente ritmica, di cui è stato detto che deve «spiare i passi dell’interprete, assecondandoli», sfruttando le melodie acute del flauto (Fue), poco accessibili a orecchie abituate alla musica tonale, e la percussione “quasi religiosa” dei tamburi da spalla (Kotsuzumi) o da anca (Otsuzumi), quasi ossessivamente accompagnata da un continuo suono gutturale caratteristico per ciascuno dei due strumenti e, forse, elemento più difficile da “digerire” fra tutte le particolarità di questo Teatro.In definitiva, più che coinvolgente, questo “assaggio” di Nō è stata un’interessante offerta culturale di eccellente valore, testimoniata dal prestigio della compagnia Sankyokai che, dal 2002, è stata dichiarata “patrimonio nazionale vivente” del Giappone. Quanto di meglio si potesse avere per conoscere un’arte sempre in tensione, ma esercitata con una perfezione stilizzata d’estremo equilibrio portata fino al limite dell’astrazione. Fatto che ha un po’ sconcertato il pubblico: gli applausi, titubanti per la difficoltà di comprendere il momento giusto per manifestare la propria approvazione, sono stati anch’essi elegantemente “ritenuti” e non proprio entusiasticamente scroscianti.