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Intervista

«Deve crescere l’uomo, non il campione»

Don Alessio Albertini, consulente ecclesiastico nazionale del Csi, parla del suo ultimo libro, di papa Francesco e dell’imminente Mondiale in Brasile

di Silvio MENGOTTO

3 Giugno 2014

Nell’agosto del 2013 don Alessio Albertini ha partecipato all’udienza di papa Francesco con le Nazionali di calcio di Italia e Argentina, in occasione della partita amichevole organizzata in suo onore. Da quell’incontro con un Papa appassionato di sport è nato In gol con Papa Francesco (In Dialogo, 144 pagine, 14 euro), in cui don Alessio ha raccolto le parole che il Pontefice ha rivolto all’uomo d’oggi, spesso, ma non solo, in occasione di manifestazioni ed eventi sportivi; il volume è arricchito da una prefazione firmata da Cesare Prandelli, che riflette sugli insegnamenti del Papa proprio alla vigilia dei Mondiali in Brasile.

Per Albertini l’attività sportiva è bella, anzi «straordinaria, anche quella professionistica, ma non può dimenticarsi che ha a che fare con l’uomo». «Mi hanno colpito le parole del Papa – spiega – e mi sono detto: “Perché non cogliere questo aspetto del Papa, così appassionato di calcio e tifoso, che usa tante volte le immagini sportive per dire la bellezza del Vangelo e cogliere qualche episodio del mondo del calcio che possa esplicitarne il pensiero?”».

Non crede che una competizione esasperata possa guastare la festa di una gara sportiva?
Papa Francesco dice che «lo sport è armonia, ma se prevale la ricerca smodata del denaro e del successo questa armonia si rompe». Se la ricerca della vittoria è intesa come vittoria assoluta, soprattutto per quello che ne deriva (soldi, fama, potere…) il rischio è quello di rendersi disponibili a tutto pur di raggiungerla. Questo intacca la lealtà dello sport: doping, eliminazione dell’avversario… Questo non è più sport, diventa qualcosa di pericoloso. L’uomo deve crescere, non il campione. È chiaro che a tutti piace vincere. La famosa frase di De Coubertin – «L’importante non è vincere, ma partecipare» – in realtà è di un vescovo anglicano e incompleta. Il vescovo disse: «L’importante non è vincere, ma partecipare da vincenti», cioè mettendocela tutta con lealtà. Questa è la competizione. Io voglio vincere, ma anche tu vuoi vincere. C’è una regola che ci mette alla pari. Nel calcio le due squadre iniziano dallo zero a zero, il traguardo è nei novanta minuti che si giocano.

In vista dei Mondiali i vescovi brasiliani hanno scritto: «Non possiamo accettare che, a causa della Coppa, famiglie e comunità intere siano state rimosse per permettere la costruzione di stadi o di altre strutture, violando così il diritto alla casa. Tanto meno possiamo accettare che la Coppa del Mondo aumenti le differenze sociali urbane, il degrado ambientale…». Non crede che ci siano responsabilità evidenziate anche dalle manifestazioni di protesta dei senza casa e di alcune tribù indios?
Amici brasiliani mi dicevano che il problema si è posto fin dall’inizio; a ridosso del torneo, ora emerge con più forza. La preoccupazione dei vescovi brasiliani l’ho avvertita parlando un mese fa con l’Arcivescovo di Rio de Janeiro Tempesta, che mi ha detto: «Siamo un poco preoccupati, perché sentiamo da una parte la responsabilità del mondo che ci punterà gli occhi addosso e dall’altra anche questa diseguaglianza sociale. Davvero i poveri rischiano di diventare ancora più poveri, di essere sfruttati per queste manifestazioni.

Qual è il suo auspicio?
Mi auguro che la Fifa abbia il coraggio di fare qualcosa, di esporsi sul piano sociali come accadde in Sudafrica. Ai giocatori, i veri protagonisti, dico di esprimere tutta la gioia e le potenzialità che il calcio sa offrire perché, comunque, regala gioia a chi guarda, a chi ascolta, a chi segue: per tanti poveri anche poter gioire è già qualcosa. Non si tratta soltanto di dare un biglietto, ma di dare dignità a queste persone, di dare voce a chi non ce l’ha più. In un convegno un giovane brasiliano, professore di educazione fisica, mi disse che il modo migliore per far vivere la Coppa del Mondo a tante persone che non la vivranno in prima persona, è quello di andare a fare calcio nelle loro favelas. Quel giovane ha rinunciato a un anno di stipendio per andare nelle favelas e animare una piccola scuola di calcio. Come farebbe probabilmente papa Francesco, che a Buenos Aires le ha praticate per anni.