Share

Aria tesa a San Vittore, ma la preghiera libera

Il cappellano del carcere, don Alberto Barin, lancia l'allarme: dopo l'indulto non è cambiato niente, si continua a vivere in un «contenitore di mille disagi». Eppure in una struttura così disumanizzante si cercano momenti di spiritualità, si legge il Vangelo e a Messa «non c'è un posto per sedersi»

6 Ottobre 2008

08/10/2008

di Luisa BOVE

Il sovraffollamento delle carceri è tornato ai livelli di pre-indulto e forse «lo si sta superando», ammette don Alberto Barin, cappellano a San Vittore, che oggi conta 1300-1400 detenuti con il 70% di stranieri. «Sono aperti soltanto tre raggi, con 5-6 persone per ogni cella, ma la sfida è proprio questa: in una struttura così disumanizzante si cercano occasioni di preghiera che diventano una sorgente di vita, capaci di restituire dignità e far resistere giorno per giorno».

Rispetto ai nuovi provvedimenti svuota-carceri che aria tira a San Vittore…
Si crede che non siano queste le soluzioni più appropriate. Il carcere è strapieno perché c’è una recidiva del 71%, le persone tornano “dentro” non per cattiva volontà o malvagità, nell’uomo c’è sempre una voglia di bene, di futuro, di vita… Quando però un detenuto esce dal carcere e non trova lavoro, casa, accoglienza sociale, ma solo disinteresse da parte di tutti e pregiudizio vi ritorna. Chi esce e cerca lavoro bussa a ogni porta, cooperative comprese, ma nessuno lo vuole, se poi non ha neppure il permesso di soggiorno e i documenti in regola… Mandar via i carcerati stranieri e usare il braccialetto elettronico comunque non è la soluzione. Ci vuole ben altro.

Che cosa?
Creare fuori contesti e organizzazioni capaci di “riassorbire” chi ha scontato la sua pena, il resto è palliativo. Si svuota il carcere con l’indulto per un paio di mesi, ma poi torna ad essere il contenitore di mille disagi. C’è un ragazzo al quinto raggio che era uscito, aveva pagato, aveva trovato lavoro e casa, con la famiglia e una figlia, ma poi è tornato in carcere perché doveva scontare ancora 15 giorni. Uscirà venerdì, ma ha perso il lavoro. Questa è una giustizia cieca che non tiene conto di una persona recuperata. Questa mattina altri due sono rientrati perché hanno ancora qualche mese da scontare, usciranno, ma dovranno cercarsi un altro lavoro, con disagio per la famiglia e sofferenza dei figli.

E in questo contesto il vostro compito qual è?
La priorità per noi cappellani è la relazione e la conoscenza della persona: seguirla, ascoltarla, andare incontro alle sue difficoltà e fare qualcosa per il suo presente e il suo futuro. Però siamo 1400 contro due, io e don Luigi Melesi. Ci sono anche tre seminaristi, cinque suore e le associazioni di volontariato, ma la presenza costante alla quale si appoggiano i detenuti è ancora quella religiosa. Fanno colloqui personali e partecipano a momenti di spiritualità e alla Messa. Io celebro al terzo raggio tutti i mercoledì con i tossicodipendenti e non c’è più un posto per sedersi. Questa sera inizio la Scuola della Parola in carcere sul Vangelo di Giovanni (la stessa che fanno i giovani “fuori”) con un gruppo di detenuti del reparto penale. Il tema oggi sarà “Che cercate?”, Gesù chiede: “Che cosa volete da me? Cosa vi aspettate da me?”.

Qualche mese fa è uscito un Vangelo con traduzione interconfessionale…
Il libro (“La vita di Gesù Cristo raccontata dai suoi”, Ldc, p. 328, 6 euro), scritto da don Luigi, unisce i Vangeli e racconta la storia di Gesù in modo semplice e lineare, senza mancare di profondità, affinché ognuno possa leggere, scoprire e conoscere Gesù di Nazareth e ciò che dice alla sua vita. È un testo pensato per i detenuti e don Luigi lo regala a chi lo chiede, è sempre la risposta a un desiderio. Ci sono a disposizione alcune copie e chi vuole prende il libro, lo legge, poi se ne parla e si commenta insieme.

Come creare un “ponte” tra carcere e società?
Io mi chiedo innanzitutto quanto la società conosca il “dentro”. San Vittore è sempre stato un carcere con porte e finestre aperte, permettendo la presenza anche di chi è “fuori”. Questo smonta tanti giudizi e pregiudizi, perché ci si accorgere che in carcere ci sono tanti giovani, persone “normali”, papà e mamme che hanno desideri affettivi, sogni… Sono persone come noi, non i “mostri” che i mass media ci descrivono creando tanti pregiudizi. Giornali e televisioni montano il caso e seminano paura.