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Migrazioni

Scola: «Migranti, il cambiamento di rotta deve essere culturale»

L'intervento dell'Arcivescovo emerito al convegno promosso da Oasis all'Università Cattolica: «Il fenomeno segnerà i prossimi decenni e richiede non solo prese di posizione episodiche». Monsignor Martinelli: «Siamo chiamati a capire questo processo tramite conoscenza e accoglienza»

di Lorenzo GARBARINO

28 Settembre 2023
(Foto Marta Carenzi Università Cattolica)

Ai fenomeni migratori serve una nuova visione. È il tema discusso all’evento «Cambiare rotta. I migranti e l’Europa», tenuto all’Università Cattolica.

L’iniziativa è stata organizzata da Fondazione Internazionale Oasis. fondata dal cardinale Angelo Scola, Arcivescovo emerito di Milano. Il suo obiettivo – costruire un ponte tra il mondo musulmano e l’Occidente – si è fatto più palese a seguito dell’acuirsi della crisi migratoria: nel 2023 sono arrivate in Italia quasi 127 mila persone  (numeri che si avvicinano a quelli registrati  2016, quando per effetto della crisi siriana sono approdate nel Paese 181 mila persone).

Sull’urgenza della questione si è espresso il rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli: «Ogni minuto si accende un nuovo focolaio migratorio. Si aprono e chiudono rotte via terra e mare. Come le affrontiamo e governiamo? La questione è irrisolta e neppure digerita dall’opinione pubblica. È un fenomeno senza ritorno, ma non per forza catastrofico. Ci impone di comprendere una situazione radicalmente nuova. Oasis non si pone un problema sociale, securitario o economico, ma culturale».

La prospettiva di Scola

Ad aprire il dibattito è stato lo stesso Scola: «Questa giornata rappresenta la continuazione dell’appello lanciato dopo il naufragio di Cutro (leggi qui, ndr). Musulmani e cristiani hanno una responsabilità sulle migrazioni, dato che i territori in cui transitano hanno una significativa presenza di queste due fedi. Il nostro contributo è non avere solo prese di posizione episodiche. Oggi il dibattito politico è altalenante, con picchi di attenzione che poi svaniscono fino alla successiva tragedia. Cambiare rotta è un invito di ordine culturale prima di essere una proposta ai decisori politici. Si tratta di fare i conti con un fenomeno che non ha più nulla di emergenziale, ma che segnerà i prossimi decenni, data l’asimmetria tra un Europa stabile, ma in crisi demografica, e una popolazione musulmana e giovane che desidera un futuro migliore».

(Foto Marta Carenzi Università Cattolica)

Nel suo intervento il Cardinale si è soffermato anche su Io capitano, l’ultimo film del regista Matteo Garrone. Secondo Scola la pellicola «entra con una considerevole profondità sulla questione».

Per Scola questa prospettiva libererebbe l’Occidente dalla presunzione di avere in mano il suo destino. Un’ulteriore monito è arrivato sulla questione dell’ospitalità, che non può essere ridotta alla mera dimensione umanitaria. «Papa Francesco – sottolinea Scola – ci ha richiamato all’immane tragedia delle persone che annegano. I suoi appelli sono accompagnati da indicazioni di cui non facciamo abbastanza tesoro. Come ribadito nell’enciclica Fratelli tutti, i nostri sforzi si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Da queste quattro azioni si possono costruire città e paesi nel segno della fratellanza umana».

Il caso del Golfo

Monsignor Paolo Martinelli – da un anno Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, dopo essere stato Vescovo ausiliare e Vicario episcopale della Diocesi di Milano – ha proposto un approccio rovesciato di 180 gradi. Di una Chiesa composta totalmente da migranti in una regione, il Golfo, dove i cristiani sono di nuovo una presenza consistente per un fenomeno che Scola definiva vent’anni fa «meticciato di civiltà e di cultura». «Tutti i nostri fedeli – spiega Martinelli – sono un milione considerando i tre Paesi insieme, e sono migranti. La maggior parte dei fedeli proviene soprattutto dalle Filippine e dall’India. Ma ci sono cattolici dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dal Libano e da altri Paesi arabi, dall’Europa, dall’Africa e dall’America, perlopiù dall’America Latina. Nessuno dei cattolici presenti possiede la cittadinanza, eccetto rarissimi casi». 

Al centro monsignor Paolo Martinelli (Foto Marta Carenzi Università Cattolica)

Martinelli ha spiegato come sia importante per i fedeli migranti appartenere non solo al proprio gruppo, ma a una comunità più grande. Il pericolo più grande sarebbe costituito infatti dalla solitudine e l’isolamento. «Qui – sottolinea il vicario apostolico – troviamo l’aspetto più originale del volto della Chiesa. Il mescolamento dei fedeli. Il meticciato di culture e di civiltà non è solo nella società ma anche all’interno della Chiesa. Per usare una espressione coniata dall’arcivescovo Mario Delpini, la nostra è realmente una Chiesa dalle genti. I fedeli imparano, insieme a fatiche e tensioni, a vivere insieme, condividendo spazi che sono limitati rispetto al loro numero. Si impegnano non solo a mantenere le proprie tradizioni, ma anche a condividerle e a conoscere espressioni ecclesiali diverse».

Questo cammino è favorito anche dalle relazioni della Santa Sede con Emirati Arabi Uniti, e Oman. Il 4 febbraio 2019 papa Francesco ha firmato ad Abu Dhabi assieme al Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib il Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune (leggi qui, ndr). Questo documento afferma che ogni credente è chiamato «a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare», specialmente se si trova nel bisogno. In questo contesto, secondo Martinelli, «essere migranti vuol dire allora essere sostanzialmente pellegrini, attraversare e abitare pienamente la storia, consapevoli non solo del suo carattere transitorio, ma anche del suo senso ultimo e definitivo. Il migrante, come pellegrino, vive di questa speranza».

Una percezione sbagliata

Martinelli ha ricordato come oggi si abbia una idea scorretta dei migranti. Chi oggi si sposta dal suo Paese spesso è infatti di religione cristiana. «Fa parte di un pregiudizio – sottolinea il vicario – dovuto a una non conoscenza della realtà e dei processi storici che avvengono sempre senza chiederci il permesso. Siamo chiamati a capire questo processo tramite conoscenza e accoglienza, così da avere a che fare con una realtà e non a un immaginario di uno straniero di cui non conosciamo il volto. Se avremo una capacità concreta di ciò, impareremo a conoscere l’altro nella sua ricchezza e diversità e ci accorgeremo che molti migranti fanno parte della nostra esperienza cristiana».

(Foto Marta Carenzi Università Cattolica)

Anche l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della fondazione Migrante, Gian Carlo Perego, sottolinea l’erronea percezione del fenomeno: «Gli italiani pensano che i migranti siano il 30%, quando invece sono a malapena l’8%. Non va falsata la realtà. Il volto della migrazione è composto da 5 milioni di persone, un numero invariato negli anni, a cui si aggiunge un sommerso di circa mezzo milione».

Perego ha ricordato inoltre come da anni ai numeri degli sbarchi non sia ricordato il fatto che l’Italia sia un luogo di passaggio: del milione di persone approdate a Lampedusa negli anni, oggi ne risiedono solo 50 mila. «Siamo un Paese che ha perso attrattiva, e ricordo che il Governo aveva previsto un flusso di almeno 500 mila migranti sul territorio». Numeri che Perego suggerisce siano destinati al meglio nel mercato del lavoro.

I corridoi umanitari

Un metodo per governare il fenomeno lo suggerisce Marco Impagliazzo della Comunità di Sant’Egidio: «I corridoi umanitari (leggi qui, ndr) sono la via legale per accogliere e integrare i migranti che vediamo nel campi profughi in Libano, Etiopia o Afghanistan. È uno strumento che ha avuto l’appoggio di tutti i governi che si sono succeduti».

Questo mezzo è reso possibile da una clausola di Schengen che consente ai Paesi di derogare alle regole per motivi umanitari. La misura è pensata per tutelare soprattutto le vittime della guerra. Negli ultimi anni sono state accolte in Italia settemila persone tramite i corridoi umanitari, che si basano sulla solidarietà di molti cittadini che ospitano a spese loro le persone. «Il costo pubblico – sottolinea Impagliazzo – è solo di verificare chi sono queste persone. È un sistema che funziona perché aiuta chi è toccato dal disastro. Può essere allargato dove si vuole, perché funziona e salva le persone dai trafficanti».

Questa mobilitazione di solidarietà è sentita soprattutto nelle aree interne del Paese, che a prescindere dal decremento demografico vivono da decenni uno spopolamento verso contesti più urbani. Un esempio è la Calabria: la regione da alcuni anni ha sviluppato un sistema di accoglienza che ha permesso il ripopolamento anche delle scuole. «Molte persone ci hanno sollecitato l’invio di questi immigrati, perché ne favorisce la rinascita di questi luoghi», ha commentato Impagliazzo.