Il Discorso alla Città dell’arcivescovo Delpini richiama una delle parabole più note, quella della casa costruita sulla roccia contrapposta a quella costruita sulla sabbia. Il messaggio descrive quelle che il Vescovo chiama «le pericolose crepe della casa comune», individuando con estrema chiarezza e drammaticità i mali che affliggono la nostra società, la nostra città.
La povertà educativa, accompagnata dall’incapacità degli adulti di trasmettere il valore e il senso dell’esistenza, costruisce una paura del futuro per le nuove generazioni.
La crisi del sistema di welfare in cui «il privato fa della salute un affare e il privato non profit in ambito sociosanitario si sente spesso ignorato e mortificato» rischia di vanificare l’universalità del diritto alla salute tutelato dalla Costituzione. L’allungarsi dei tempi delle liste d’attesa costringono chi se lo può permettere a pagare le prestazioni sanitarie e condannano una percentuale di persone sempre in aumento a rinunciare a curarsi.
Un sistema carcerario divenuto ormai ricettacolo di gran parte della marginalità sociale senza investimenti e strutture che vanifica ogni qualsivoglia finalità rieducativa per perdersi in normative repressive che non fanno altro che produrre recidive nel compimento dei reati.
Un capitalismo malato al servizio dell’individualismo che continua a creare iniquità e disuguaglianze in cui i bisogni primari della casa, del lavoro e della socialità vengono trascurati sull’altare della finanza.

In questi scenari inquietanti l’Arcivescovo richiama ognuno di noi alla propria responsabilità personale, ci richiama ai doveri comuni verso la nostra città, verso il luogo della convivenza degli esseri umani.
Monsignor Delpini ci invita a guardare alla speranza possibile che nasce dalla forza della testimonianza corale di tante persone che, fondandosi sui valori evangelici, cercano di fare il loro dovere «di mettere mano all’impresa di aggiustare il mondo».
Una città piagata da molte sofferenze, manchevolezze, errori, che non potrebbe andare avanti se le persone si sottraessero alle loro responsabilità a cui li richiama la loro coscienza di cristiani e di cittadini. Sono coloro che, come scrive l’Arcivescovo, «sono animati da una passione per il bene comune e avvertono la vocazione alla solidarietà come fattore irrinunciabile per la loro coscienza, custodiscono principi di giustizia, pensieri di saggezza, consapevolezza delle proprie responsabilità e non sarebbero in pace con sé stessi se si accomodassero nell’indifferenza»: non superuomini o superdonne, persone normali, fallibili come tutti, capaci di amare e di soffrire.
In fondo è il ritratto degli ottant’anni di storia della nostra associazione composta di persone, lavoratori, padri e madri di famiglia che cercano ogni giorno di vivere i valori che hanno appreso dai loro genitori, nelle loro comunità ecclesiali e civili, nella vita associativa.
Persone che sanno coltivare «quell’invincibile desiderio di bene, quel senso di responsabilità, quella disponibilità ad affrontare anche fatiche e sacrifici», «che permette alle comunità di dirsi tali perché in esse circola, anche in forma imperfetta, l’ispirazione evangelica a farsi prossimo gli uni gli altri e a cercare di costruire un mondo migliore».
Il messaggio dell’Arcivescovo che riconosce «nella fede cristiana un fondamento necessario per la speranza e una motivazione decisiva per l’impegno» ci rincuora in questi tempi inquieti spronandoci a proseguire il difficile «cammino del giusto».




