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Oltre la notizia, accendere il fuoco della speranza

Si è svolto in Università Cattolica il convegno «Uscire dalla bolla: comunicazione e Chiesa, oltre gli stereotipi», nel Giubileo diocesano dei comunicatori. Al termine la celebrazione in Sant'Ambrogio presieduta dall'Arcivescovo Delpini

di Annamaria BRACCINI

10 Maggio 2025
Agenzia Fotogramma

«La Chiesa non ha come scopo dare notizie, ma la sua comunicazione è fatta per convocare, per far sì che le persone si incontrino. Noi parliamo perché la gente senta il desiderio di andare, di coinvolgersi, di propiziare la partecipazione nella Chiesa». Per questo chi comunica, specie a livello ecclesiale, ha una precisa una «responsabilità». Quella di «offrire parole ardenti che dicano qualcosa di serio, perché il mondo ha bisogno di un punto di riferimento come ha dimostrato l’immensa attenzione per gli eventi della Chiesa in questi giorni».

I saluti istituzionali

In un’affollata aula “Manzoni” dell’Università Cattolica, dove si svolge il convegno «Uscire dalla bolla: comunicazione e Chiesa, oltre gli stereotipi», nella giornata in cui si celebra il Giubileo diocesano dei comunicatori, a prendere la parola, dialogando con Mario Calabresi, giornalista e scrittore, direttore di Chora Media e con don Stefano Stimamiglio direttore di Famiglia Cristiana, è l’Arcivescovo che indica il dovere di una comunicazione capace di «andare al di là delle banalità».

La rettrice Elena Beccalli. Agenzia Fotogramma

Dopo il saluto introduttivo di Stefano Femminis, responsabile dell’Ufficio delle Comunicazioni Sociali della Diocesi, che ricorda come il Giubileo diocesano concluda significativamente il Corso «La parrocchia comunica» iniziato nel febbraio scorso, è la rettrice dell’Ateneo, Elena Beccalli, a osservare. «Occorre prestare attenzione all’abuso di parole ostili. I giornalisti devono scegliere le parole con attenzione, considerando non solo l’effetto immediato sul lettore, ma anche tenendo ben in mente le ripercussioni personali e sul tessuto sociale. Un linguaggio ostile può generare pregiudizi, intolleranza e diffondere paura. È perciò essenziale promuovere un giornalismo che faccia uso di termini che stimolino il pensiero critico, piuttosto che alimentare l’odio o la divisione». Fondamentale, in un tale contesto, la formazione, particolarmente curata dalla Cattolica attraverso le attività di Almed (Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo) e la sua prestigiosa Scuola di giornalismo.

Le cifre di un mondo che vive sulla rete   

E quanto vi sia bisogno di professionalità in un mondo popolato di social e da fakes news, ben si capisce dal quadro di riferimento delineato dalla relazione di Maria Grazia Fanchi, direttrice dell’Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo, professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione nella stessa Università.

«Siamo inseriti in un sistema così potente da cambiare le percezioni politiche internazionali in pochi secondi, facendo parlare di prove di pace a causa della diffusione delle immagini del dialogo informale tra Trump e Zelensky in San Pietro per i funerali di papa Francesco», osserva la docente, parlando della «contraddizione che caratterizza oggi il sistema dei media».

Maria Grazia Fanchi. Agenzia Fotogramma

«Nel 2023 le imprese mediali hanno generato 2830 miliardi di dollari di indotto e, nel 2028, si dovrebbero superare i 3000. Questo dà la dimensione di dove siamo immersi. Quando alla digitalizzazione si è aggiunta la socializzazione, l’auspicio fu che vi fosse maggiore pluralismo, ma questo non è accaduto, perché il potere comunicativo è concentrato in poche grandi realtà. E tutto questo lasciando indietro intere parti del mondo.

«Infatti, seppure il 68% della popolazione globale ha accesso alla rete e nel nord Europa si sfiora il 100%, in Africa orientale si scende al 30. L’accesso ai media è aumentato in modo significativo, ma quella che era un audience diffusa all’inizio del millennio (prima dei social), ora vede un investimento sui tempi della nostra vita che non è più sostenibile: sulla rete stiamo, a livello mondiale, oltre 8 ore al giorno».

«In un solo minuto di vita della rete, vi sono 251 mln di mail spedite, 139 mln di video postati, 19 mln di messaggi – ha proseguito Fanchi, dati alla mano -, ma a questo si accompagna una crescita di fenomeni di inospitalità» tanto che, ad esempio, «nel primo semestre del 2024 sono stati rimossi da Tik Tok ben 345,82 mln di video, ritenuti inaccettabili e nel 2024 il 59% dei cittadini ha considerato di fruire di contenuti falsi e distorti».

Che fare, quindi? «Ciò che ha suggerito Papa Francesco concludendo il Giubileo dei giornalisti: pensare al comunicare come a un atto di amore e alle reti come realtà che vanno curate e riparate ogni giorno».

Poi, il dialogo moderato dalla giornalista della Tgr Rai Donatella Negri, che si avvia con la domanda posta al vescovo Mario su come abbia giudicato l’immensa presenza mediatica legata alla scomparsa di papa Francesco e ai giorni che hanno portato all’elezione di papa Leone XIV.

La comunicazione degli eventi planetari di questi giorni

«La sensazione è stata di essere travolti, ma mi sono chiesto se si possono dare ragioni per questo interesse. Io ho avuto la percezione che l’umanità abbia il desiderio di un punto di riferimento e questi eventi planetari hanno fatto convergere su un punto di riferimento. Sono convinto che sia stato eccessivo, ma l’umanità ha capito che vi è un punto di riferimento di cui abbiamo bisogno».

Il tavolo dei relatori. Agenzia Fotogramma

«Proviamo a immaginare – riflette, da parte sua, Calabresi – se le televisioni avessero proposto un’altra programmazione rispetto al Conclave. Cosa avremmo detto? Che la Chiesa non contava più? Meno male che vi è ancora desiderio di attenzione per questi eventi».

«Il fatto che abbiamo visto il nuovo Pontefice con dei fogli in mano indica un’attenzione al linguaggio con la parola, ripetuta 9 volte: pace, pace disarmata e disarmante. In quel momento c’è stato un messaggio comunicativo molto forte. In mezzo a tutto il rumore di fondo che ci circonda, dobbiamo essere preoccupati non di questo rumore, ma dei messaggi che emergono».

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«5300 giornalisti a Roma accreditati, con un investimento anche economico enorme per le redazioni, ci dicono come gli eventi della Chiesa siano una grande occasione per trasmettere un messaggio. La Chiesa in 18 giorni è riuscita a gestire una situazione estremamente umana: dal lutto alla sua elaborazione, dall’attesa alla scelta del successore. La gente ha bisogno di simboli e un comunicatore cattolico deve cercare di decriptarli. Credo che il Papa abbia fatto esattamente questo nel suo primo affacciarsi e con le sue parole», spiega Stimamiglio.  

Usare parole che accendono il cuore  

Insomma, serve un’alfabetizzazione dei comunicatori?

Chiara la posizione di Calabresi. «Tentiamo di fare in modo ci sia più gente che parla non a sproposito. Sono sempre più convinto che rallentare sia importante per comunicare. Ognuno di noi deve recuperare la libertà di non dover dire la sua riguardo a qualunque cosa, rivendicando il tempo per formarsi un’opinione. La complessità ha bisogno di tempi, di modi e di spazio. La rilevanza non è data dalla moltiplicazione dei contenuti: si è più rilevanti se si parla meno e se lo si fa a ragion veduta».

Agenzia Fotogramma

Concorde monsignor Delpini. «Il giornalista fa un buon servizio quando sa elaborare un linguaggio pertinente all’evento, proporzionato all’oggetto che si comunica. A volte il modo di comunicare della Chiesa non riesce a evitare le parole grigie, il grigiore dello scontato che non comunica niente. Ma come si fa a scrivere una parola che disseta, che accende come un fuoco, che comunica l’ardore, il cuore del mistero e non una polvere che copre lo splendore? Curando la formazione. Anche per questo vi è l’impegno della Diocesi a fornire elementi formativi.

«Papa Francesco aveva una genialità nel comunicare, pensiamo a espressioni come “la Chiesa in uscita” o “l’ospedale da campo”, ma i suoi non erano slogan, erano una parola che fa pensare e che diventa un’inquietudine. Quando si scrive della Chiesa, bisogna farlo con argomenti che fanno pensare».

Anche perché, scandisce il direttore di Famiglia Cristiana, «la parola è performativa, tanto che oggi tutti, anche gli analisti, definiscono la situazione internazionale con l’espressione di Francesco, “la terza guerra mondiale a pezzi”. Fare un atto comunicativo è sempre rischioso, diceva il nostro fondatore, il beato Giacomo Alberione, ma tutti noi siamo convocati a dare ragione della nostra fede».

Infine, arriva la gratitudine del vescovo Mario «per tutti coloro che lavorano nella comunicazione ecclesiale», concretizzata anche attraverso la sua Lettera agli operatori della comunicazione, dal titolo Da grande vorrei fare il giornalista (Centro Ambrosiano Editore). «C’è una ragione profonda e una responsabilità nel fare comunicazione a proposito della Chiesa. Questo è l’incontro dell’Arcivescovo con i giornalisti, con coloro che hanno cura per le cose, per le notizie verificate, per una professione seria. Sono queste la speranza e la responsabilità di chi comunica. Indurre le persone a essere disperate è grave: il giornalismo è una missione».

Leggere il presente con speranza

Parole che tornano, poco dopo, nella meditazione per il Giubileo diocesano del mondo della comunicazione, da lui presieduto nella vicina basilica di Sant’Ambrogio, una delle 3 chiese giubilari di Milano.   

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«Siamo il popolo della speranza. Questo significa che dobbiamo dare il buon esempio. Siamo il popolo della speranza perché siamo stati riconciliati, il Signore ha trasformato la nostra storia di peccato in una storia di santità. Non siamo qui per un ruolo, per un’inclinazione all’ottimismo, ma per ascoltare una promessa che ci è stata fatta personalmente. L’adempimento giubilare che stiamo vivendo dice che possiamo deporre quello che ci pesa, sentirci liberati dai sensi di colpa, dai rammarichi per ciò che non abbiamo fatto e che non siamo stati. Siamo il popolo della speranza perché ci è stata usata misericordia».

E, ancora, siamo pellegrini di speranza «che vuol dire che non ci siamo accomodati, non siamo arrivati, siamo in cammino e abbiamo una meta da raggiungere. Ci è stata fatta una promessa e per questo abbiamo delle ragioni per metterci in cammino».

Agenzia Fotogramma

«Siamo seminatori di speranza che è il compito di tutti i cristiani, ma per i responsabili della comunicazione in modo particolare. Seminare speranza è una responsabilità specifica, non è selezionare le notizie per dire solo quello che va bene, ma interpretare ciò che accade con il criterio ispirato dallo Spirito santo, incoraggiando le persone. Vi ringrazio del servizio che fate come un aiuto a leggere il presente».

A conclusione della mattinata, è lo stesso vescovo Mario, dopo la benedizione e la recita della preghiera corale del Giubileo, a consegnare la sua lettera nelle mani dei tanti giornalisti presenti.

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