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Milano

Dalla teologia una risposta alla sete di verità dell’umanità

Testimoniare la fede in un contesto pluralistico: questo il tema del convegno annuale della Facoltà teologica, concluso dall’Arcivescovo:  «Nel confronto con le domande del nostro tempo chiediamoci quale speranza c’è per gli uomini che vivono sulla terra»

di Annamaria BRACCINI

21 Febbraio 2024
L'Arcivescovo saluta don Massimo Epis, preside della Facoltà teologica

Il dovere della teologia di confrontarsi con le questioni più dibattute della contemporaneità, la volontà di interrogarsi in un contesto spesso confuso, il desiderio di offrire strumenti per interpretare e proporre la verità cristiana oggi. Sono stati temi impegnativi e dalle molte prospettive quelli affrontati nel convegno annuale promosso dalla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale presso la sua sede centrale, al quale hanno partecipato un gran numero di docenti, allievi e studiosi di diversi atenei. Conclusa dall’Arcivescovo nella sua veste di Gran cancelliere della Facoltà e dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Milano, l’assise, dal titolo «Consenso democratico e verità cristiana. Dire la fede in un contesto pluralistico», ha visto le comunicazioni di diversi teologi, impegnati ad articolare il tema, definito da monsignor Delpini particolarmente apprezzabile nel suo tentativo di «riflettere e confrontarsi con le domande del nostro tempo».

L’intervento dell’Arcivescovo

Cercare il senso delle cose

«Oggi – ha proseguito – tanti giovani, aspiranti a studiare e a intraprendere percorsi impegnativi, sono confusi sul senso delle cose, non sanno dove cercare e, quindi, cercano rassicurazione in dati che sembrano incontrovertibili come quelli scientifici, sufficienti per abitare il mondo. È per questo che dico il mio apprezzamento per percorsi che cercano la comunicabilità della verità cristiana e in che modo la strumentazione di cui si è dotata la Chiesa nei secoli – e, quindi, anche il dogma, il dialogo con la cultura, il sensus fidei dei fedeli -, dica tale verità, ossia che Gesù è risorto ed è principio di speranza. Il senso delle cose non è sapere come funzionano o come utilizzarle, ma è nel chiedersi quale speranza c’è per gli uomini che vivono sulla terra. Mi pare che sarebbe bene che ci fosse nelle facoltà scientifiche un po’ di teologia, perché la scienza, così impressionante nelle sue risorse e così povera nel suo significato, forse ha bisogno di confrontarsi con un’articolazione teorica e una riflessione critica che si domandi come la verità può essere compresa e argomentata. E questo perché ci sia una speranza nella vita ordinaria attraverso un riflettere e un confrontarsi con le domande del nostro tempo e con quella sete di verità che continua a essere sospiro dell’umanità. A noi la responsabilità di indicare quale sia la fonte di quell’acqua viva».

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Confrontarsi con il presente

Parole, queste, in piena sintonia con quelle della presentazione della giornata di studi di don Massimo Epis, preside della Facoltà: «La fede cristiana è il nome di una relazione da vivere al presente con il Signore Gesù, il quale, in ogni tempo, rende possibile vivere la sua sequela. Perciò la fedeltà al proprio tempo non è una concessione, ma una condizione intrinseca alla fede stessa. Perché questa fedeltà venga esercitata in modo non acritico occorre essere consapevoli delle trasformazioni in atto, mediante l’indagine dei tratti salienti della loro manifestazione e discutendone le ragioni profonde. Si tratta di compiti vasti, che coinvolgono direttamente lo stile ordinario del fare teologia». Specie in alcuni passaggi particolarmente critici nel presente, come il tema del dogma: «A fronte della sostituzione della verità con il mainstream non mancano i segnali di allarme per le nuove forme di strumentalizzazione dell’opinione pubblica, funzionali a una logica mercantile sempre più cinica, che trova supporto nei formidabili sviluppi tecnologici in atto». Anche perché, a volte, si ha l’impressione che la condanna tout court e l’insofferenza per il dogma di fede sia stata sostituita semplicemente da altri dogmi: quelli del pensiero dominante.

La relazione di Florinda Cambria

Chiaro, quindi, che occorra un nuovo modo di “parlarsi” e di intendersi oltre i luoghi comuni. Così come ha delineato nella sua relazione Florinda Cambria, docente di Filosofia presso l’Università degli Studi dell’Insubria: «Democrazia e verità plurale non ci esimono dalla necessità di riunire le differenze attorno a nuclei che orientino il fare e il dire collettivi. La possibilità di nuove pratiche di vita democratica richiederebbe, dunque, la capacità di individuare, di volta in volta, i nuclei attorno a cui le differenze possano comporsi in vista di obiettivi comuni». Insomma, “nodi di condivisione”, per usare una nota espressione del sociologo francese Bruno Latour, per una lingua comune con cui comunicare, «che non sarà certo l’esperanto o l’inglese maccheronico planetario, ma un’onda discorrente di umani impegnati a riconoscersi nella necessità vitale delle loro reciproche differenze, affinché altre umanità si configurino come condizione essenziale per l’esistenza di quelle attuali».

La questione del dogma

È evidente, tuttavia, che in tale orizzonte la questione del dogma di fede si presenti come poco gradito, secondo quanto è emerso dalla comunicazione “L’attualità inattuale del dogma”, proposta da don Alberto Cozzi, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà e membro della Commissione Teologica Internazionale.

«A livello di discernimento storico dei tempi – ha infatti sottolineato Cozzi – occorre segnalare come fin dalla crisi modernista, il confronto con la cultura abbia segnato la missione della Chiesa nella modernità. Si tratta di una “crisi di senso”, che chiede di ripensare il modo di dire la verità rivelata all’uomo moderno e, soprattutto, che esige una diversa valutazione dei segni dei tempi, capace di inserire il germe della fede in modo fecondo. A questo livello, il dato dogmatico sembra ormai divenuto ingombrante, monumentale e ingestibile di fronte alle continue variazioni dell’accelerazione dei tempi e degli sviluppi della società complessa».

Da qui alcuni interrogativi: «Quale semplificazione è possibile o auspicabile? Come riappropriarsi di una così grande tradizione in modo agile e fruttuoso?», affidati alla riflessione della teologia per non ampliare ulteriormente quel «dramma denunciato da Paolo VI di una separazione tra fede e cultura, tra credo e forme dell’esperienza», per cui «la soluzione non può essere quella di rifugiarsi in vaghe intuizioni spirituali».

 

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