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Milano

Barbareschi, l’amore per la libertà che nasce dalla passione per il bene comune

Al Collegio San Carlo serata dedicata al prete ambrosiano protagonista della Resistenza, con un dialogo tra gli studenti e l’Arcivescovo, che ha poi celebrato la Messa: «Davanti a scelte che inquietano ci sono “angeli” che indicano la direzione promettente»

di Annamaria BRACCINI

3 Ottobre 2023
Un momento del dialogo  tra l'Arcivescovo e gli studenti del San Carlo

«Eravamo un piccolo gruppo che si ritrovava in una soffitta del San Carlo: sei amici, quattro sono morti fucilati o in campo di concentramento. Sono qui per dirvi che dovete innamorarvi della libertà di ogni persona umana». Riesce ancora a scuotere e a emozionare, la voce di monsignor Giovanni Barbareschi, resistente cristiano, prete ambrosiano delle Brigate Fiamme Verdi e nell’Oscar, l’organizzazione scoutistica che salvò tante vite, Medaglia d’Argento della Resistenza, Gran Medaglia d’Oro del Comune di Milano, scomparso cinque anni fa, il 4 ottobre 2018, a 96 anni.

E continua a parlare al cuore, non per come diceva le cose o raccontava del periodo, insieme tragico e glorioso, della resistenza con un innato carisma comunicativo, ma per i valori che rappresentava predicando il Vangelo e la libertà. Proprio dalla libertà parte la serata al Collegio arcivescovile San Carlo – dove Barbareschi fu anche docente -, che vede il dialogo tra l’Arcivescovo e alcuni studenti e studentesse degli ultimi due anni di liceo, la celebrazione eucaristica nella cappella dell’Istituto, l’intitolazione di una sala con la benedizione di una targa dedicata a don Giovanni e la presentazione di una piccola, ma significativa mostra in 12 pannelli all’ingresso della scuola.

Presenti all’evento molti insegnanti del San Carlo con il rettore, don Alberto Torriani, le due segretarie di don Barbareschi, Grazia Castelli e Maria Teresa Cereghini, con lui per molti anni, Carla Bianchi Iacono, figlia di Carlo Bianchi (allievo del Collegio e uno degli amici del gruppo ucciso a Fossoli, di cui faceva parte anche Teresio Olivelli, oggi beato), rappresentanti del mondo culturale e civile milanese come il presidente della Fondazione Ambrosianeum Fabio Pizzul e il suo predecessore Marco Garzonio. Tutto per rendere un doveroso omaggio nella preghiera al sacerdote «ribelle per amore», ma anche per indicare ai giovani il dovere di non dimenticare che occorre innamorarsi della libertà, o meglio che, come diceva Barbareschi con una frase che dà il titolo alla mostra, «mi hanno innamorato della libertà».

Innamorare alla libertà

Ma appunto «chi può muovere questo amore?», chiede un primo allievo avviando il confronto, moderato dal professor Fabrizio Galbiati nella sala Agorà del Palazzo Busca del Collegio, spazio un tempo delle cantine e ora completamente recuperato come luogo di formazione multimediale. Chiara la risposta dell’Arcivescovo: «Ci innamora alla liberta qualcuno che ci chiama, quelli che insegnano a pensare, un docente, un genitore, quando ci permettono di non fermarsi al politicamente corretto e ci risvegliano dalla pigrizia. Quando qualcuno ci dice che il nostro tempo può essere utilizzato per un servizio e non per essere serviti. Innamora alla libertà chi infonde una passione per il bene comune, per una politica che contrasti l’imperialismo dell’individualismo e le scandalose diseguaglianze».

L’interrogativo è anche su come si possa seriamente dire «no» oggi, dopo la proiezione di un breve video sul contributo del San Carlo alla Resistenza, definito dallo stesso Barbareschi «fondamentale» come sede delle riunioni dell’Oscar e nel ricordo di tanti amici che proprio nelle soffitte del Collegio idearono il Ribelle, foglio antifascista «che esce come e quando può». «Sono convinto che i genitori di don Giovanni abbiano detto no all’omologazione fascista, perché avevano detto sì a qualcosa che sta a cuore più che dell’aria che tira, a principi più alti che non consentono, per esempio, l’arresto di un ebreo solo perché è ebreo – nota l’Arcivescovo -. Si può dire di no a qualche cosa che si impone, che seduce, che aggrega a un gregge, come voleva il fascismo, se si dice di sì a un sogno, a una scelta promettente, a un’appartenenza costruttiva della libertà della persona».

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La libertà come scelta

Sulla «libertà come scelta», verte la terza domanda. «L’essere umano è in se stesso libertà, ma occorre chiedersi perché siamo vivi – spiega monsignor Delpini -. Viviamo di una vita ricevuta, di un dono d’amore e questo vuol dire che la libertà non è smarrirsi senza legami, senza essere di nessuno e non avendo nessuno. Noi viviamo legami che costruiamo e che hanno dato senso alla vita come fecero quelli del Ribelle. La libertà è la possibilità di rispondere alla vocazione, una parola estranea alla cultura del nostro tempo».  

E, ancora, come dire «parole vere», come quelle che, in un’ulteriore video testimonianza, don Giovanni propose agli studenti del San Carlo? «Si può dire che le parole vere sono quelle non obbligatorie: dire “viva il Duce” era obbligatorio, il problema è che molti lo dicevano convinti. Le parole vere non sono nemmeno quelle sincere, che vengono da una personale persuasione, sono quelle che portano una testimonianza alla verità. È un tema veramente arduo, ma per intuire la verità, bisogna essere umili per ascoltare la sua voce. Le parole vere sono quelle che impegnano e ci mettono in gioco».

Particolarmente interessante l’interrogativo su chi siano i «faraoni che nella società di oggi rischiano di far vivere in modo sbagliato una falsa libertà».

La croce delle difficoltà

«I nuovi faraoni sono quelli che sono costruiti dal consenso, quando le persone consegnano a qualcuno la loro testa per rinunciare a pensare, i loro desideri, le loro passioni, per chiedere che siano esauditi. Se credo alle promesse del faraone, mi consegno a lui perché mi aspetto che soddisfi le mie aspettative. Un esempio di questo rendersi schiavi è l’uso degli stupefacenti. Chi adora il faraone rischia e vive di solitudine, per questo è così importante l’amicizia».

Infine, come accettare la «croce delle difficoltà?». «Le difficoltà le incontrano tutti e anche voi, ma alcuni le chiamano croce che fa riferimento al crocifisso. Gesù ha interpretato la persecuzione, la tortura, il disprezzo, per dimostrare che ha continuato ad amare: la sofferenza è stato un modo estremo per dire “io vi amo”. La difficoltà si può intendere come un destino avverso o come un modo per migliorarsi. A me piace dire che la situazione è occasione, perché qui si torna all’idea della libertà di scegliere perché esiste sempre un futuro di risurrezione».

Gli angeli sono tra noi

Poi, in cappella, la Messa – preceduta dalla lettura dell’ultimo scritto di don Giovanni -, presieduta dall’Arcivescovo e concelebrata da don Torriani, da don Fabio Landi (responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale scolastica) e da don Giuseppe Grampa (amico per decenni di don Barbareschi e vicino a lui anche nella malattia). 

Dalle letture e dal ricordo di monsignor Barbareschi prende spunto l’omelia: «Talvolta ci si sente smarriti, da giovani, ma anche da adulti, davanti a domande che mettono in discussione la nostra inerzia, da scelte che inquietano. Ci sentiamo anche spaventati, con la percezione che incombe su noi una minaccia, una malattia, affrontando ambienti in cui sembra che la nostra vita non conti niente. Si guarda al futuro e lo si immagina segnato soprattutto dalla minaccia, dalla solitudine pur tra tanta gente. Queste tre esperienze attraversano tutte le storie umane, ma Dio sta vicino a ciascuno, i suoi angeli sono il segno della sua sollecitudine per ciascuno di noi».   

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Così come indica la parola “angelo”, che significa semplicemente messaggero: «Non facciamoci prendere troppo dalla fantasia di uomini e donne alati che volteggiano nel cielo, gli angeli possono essere persone che incontriamo ogni giorno o che abbiamo incontrato. Persone che portano una parola da parte di Dio. Anche don Giovanni ha portato un messaggio da parte di Dio e qualcuno di voi lo ha sentito rivolto a sé».

Da qui la conclusione: «Per questo possiamo vincere lo smarrimento, perché c’è un angelo che ci dice la direzione promettente, possiamo vincere lo spavento perché, se non ci lasciamo travolgere da un’emozione troppo forte, percepiamo che c’è una presenza amica che incoraggia ad affrontare il rischio. Possiamo vincere la solitudine perché c’è sempre qualche angelo di Dio, che ci sta vicino senza pretendere niente. Perciò non lasciatevi mai abbattere, non ritenete mai che sia ragionevole disperare, non ripiegatevi sulla vostra solitudine a compiangervi, ricordate che da qualche parte, lì vicino, c’è un angelo di Dio».

Infine, la recita corale della Preghiera del Ribelle di Teresio Olivelli e la benedizione da parte dell’Arcivescovo della targa che verrà posta nella Sala Monsignor Barbareschi, «in memoria di don Giovanni Barbareschi, testimone della libertà e appassionato educatore». 

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