Percorsi ecclesiali

La Pasqua 2024 nella Chiesa ambrosiana

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Venerdì Santo

«Dal buio che avvolge la terra ci inoltriamo nel mistero di Dio»

In Duomo la celebrazione della Passione presieduta dall'Arcivescovo: «La Chiesa di oggi è come il popolo dei devoti straziati e impotenti ai margini della scena del Golgota... Ma la croce ci rende responsabili della speranza del mondo» 

di Annamaria BRACCINI

29 Marzo 2024
L'adorazione della croce (Agenzia Fotogramma)

Ci siamo anche noi «nella scena affollata del Golgota. La Chiesa di oggi, la Chiesa di sempre con la gente che assiste straziata agli insulti e alla violenza che annientano il Maestro. La gente che prega, che spera, che piange e prova compassione per l’umanità disperata». Sì, ci siamo anche noi e non possiamo dimenticarlo. Noi che «abitiamo nel buio che avvolge tutta la terra, tra i popoli che si fanno la guerra, che si rovinano per rovinare i popoli fratelli, tra i popoli che acclamano ai potenti che vogliono la guerra, che si difendono dallo spavento della guerra con l’indifferenza… Noi che vorremmo dire di Gesù innalzato tra cielo e terra per riconciliare i popoli nel nome di Dio Padre di tutti, anche se l’invito alla riconciliazione è coperto di insulti».

Gesti e segni

Nella sera che conduce al momento decisivo della vita cristiana di ogni tempo, il Venerdì santo con la celebrazione della Passione e della Deposizione del Signore – definita, nell’antico Rito ambrosiano, anche «Pasqua di Crocefissione» -, l’Arcivescovo, che presiede in Duomo, alza un’omelia che scuote il cuore.

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In altare maggiore siedono i vescovi monsignor Angelo Mascheroni e Giuseppe Merisi e i Canonici del Capitolo metropolitano. Molti, e carichi di un significato profondissimo, i gesti e i segni che rendono viva ed evidente la memoria del sacrificio sulla croce gloriosa della Risurrezione. Il Rito iniziale della luce, l’Inno, la prima e la seconda Lettura tratte dal Libro del profeta Isaia che prefigurano la figura di Gesù, a cui segue il canto del Tenebrae (anch’esso tipico ambrosiano); il Vangelo di Matteo che riprende dal punto in cui si era interrotto nella Celebrazione in Coena Domini nel Giovedì santo.

L’Arcivescovo proclama solennemente la pagina evangelica (ed è l’unica volta che avviene durante l’anno, per un un’antica tradizione della Chiesa cattedrale) e, nel momento in cui «Gesù gridò a gran voce ed emise lo Spirito», in Duomo scende l’oscurità, ci si inginocchia ed è spogliato l’altare, nel silenzio dei fedeli.

Un popolo muto

Un popolo muto come quello di 2000 anni fa, fatto dei «devoti ai margini della scena, quelli che non contano niente». «Siamo la gente che osserva, impotente, il cinismo di coloro che, passando sotto la croce, disprezzano il crocifisso. Noi abitiamo nel buio che avvolge tutta la terra, abitiamo nelle case dove si spezzano i legami d’amore e si generano rapporti ostili e bambini infelici. Vorremmo indicare Gesù come il salvatore, l’amico e colui che crea la nuova alleanza, ma la professione di fede è coperta dalla voce dello scherno: “Gesù non ha potuto salvare se stesso, come vuoi che salvi il mio matrimonio, la mia famiglia?”».

Insomma, sempre noi: quelli che «abitiamo nel buio che avvolge la terra, tra i giovani che non hanno voglia di diventare adulti, che si attribuiscono come merito e segno di intelligenza il non credere a niente, che si fanno del male, che cercano libertà nelle dipendenze, compagnia in fantasie solitarie, piacere nel frutto avvelenato della passione. Vorremmo indicare Gesù come il Salvatore, ma la professione di fede è coperta dalla volgarità delle bestemmie».

I fedeli in Duomo

E l’affondo di monsignor Delpini si fa ancora più doloroso: «Abitiamo nelle desolazioni che non si possono sopportare, nelle umiliazioni che la buona educazione non può raccontare, nelle oppressioni insopportabili e spropositate che tormentano i carcerati, i profughi, le vittime del denaro sporco. Noi vorremmo dire di Gesù che indica la via della giustizia e della misericordia, ma nessuna attenzione si riserva alla professione di fede sulla strada dove passa la gente che insulta e scuote il capo dicendo: “Se tu sei figlio di Dio, scendi dalla croce”».

Ecco, noi sì come quelle molte donne che osservano da lontano: «Che dicano qualche cosa o che se ne stiano nel silenzio della contemplazione e della compassione, sembra che non interessi a nessuno, che non faccia notizia, che non meriti attenzione», magari fino al prossimo omicidio di donne mute.

Il tabernacolo vuoto

Responsabili della speranza del mondo

Allora, che fare? «Ci inoltreremo nel mistero di Dio, seguendo Gesù, professando la nostra fede, vivendo un silenzio abitato dal sospiro di un incontro che vinca le tenebre e ci avvolga di luce; un ascolto che raccolga dal silenzio di Dio parole nuove, taglienti come una spada a doppio taglio, vere come un abbraccio indiscutibile, parole inaudite a smentire la sapienza del mondo, che offrono buone ragioni per rischiare il martirio». Vivendo, con fiducia, «come responsabili la speranza del mondo».

Poi, l’adorazione della Croce, portata in processione nella navata maggiore della Cattedrale in tre tappe, con la gente che al suo passaggio si inginocchia, dall’ingresso del Duomo fino all’altare maggiore, baciata dall’Arcivescovo, dai Canonici e da una rappresentanza dei fedeli.

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Dalla preghiera universale con le sue undici orazioni – che paiono abbracciare il mondo intero, dal Papa ai fratelli maggiori ebrei, dai cristiani di tutte le confessioni a chi non crede, dai governanti ai malati e ai defunti -, si arriva, infine, al ricordo della Deposizione del Signore, che guida a contemplare la scena della sua deposizione, quando, dopo le due Letture dal Libro del profeta Daniele e il Vangelo di Matteo, cala il silenzio e quattro diaconi velano la Croce, con un altro rito peculiare della Cattedrale, per indicare la discesa di Cristo agli inferi.

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