
«Credo che la missionarietà di cui scrive l’arcivescovo nella sua Proposta pastorale sia la stessa di cui ha parlato al Sinodo, soprattutto nella seconda Sessione dell’ottobre 2024, riscuotendo un consenso molto significativo laddove richiamava che l’orizzonte, per impegnarci nei processi di sinodalità, sia il ritrovamento della “missione” non come un compito o un’attività della Chiesa, ma come ciò che identifica radicalmente la Chiesa stessa». Don Mario Antonelli, rettore del Pontificio Seminario Lombardo, già vicario episcopale in Diocesi, facilitatore alla XVI Assemblea generale dei vescovi, sintetizza così l’idea di missione che «illumina» l’intera Proposta dell’arcivescovo.
Visitando i fidei donum nei suoi viaggi estivi sudamericani, l’arcivescovo ha detto che si è trattato di uno scambio tra Chiese sorelle. Lei che è stato in terra di missione, sente la forza di questo cambiamento di prospettiva?
È un’indicazione particolarmente preziosa e mi ricorda l’intervento di un Padre conciliare che, rappresentando una Chiesa del cosiddetto Terzo mondo, richiamava i vescovi europei e nordamericani all’idea che le Chiese più povere non vogliono più sentirsi “missionate”, ma missionarie anch’esse. Ogni Chiesa, in quanto accoglie il Vangelo di Gesù – anche nelle sue ristrettezze e limitazioni – è capace di una missione con la sua testimonianza, i suoi racconti, i suoi percorsi pastorali e può essere di insegnamento. Che la Chiesa ambrosiana si senta dentro questo circolo cattolico in tutti i sensi, è bello e importante.

In quelle che chiamiamo terre di missione si rende evidente un trend che prefigura ciò che potremmo diventare con la diminuzione dei preti e la necessità di coprire larghi spazi…
È appunto in questo cambiamento d’epoca che è bene alzare lo sguardo, tendere l’orecchio e domandare alle Chiese sorelle più giovani un ammaestramento. Ricordo, nella mia esperienza in Brasile, come una Diocesi di 31 parrocchie – come era la nostra di allora -, vedesse la presenza sul territorio di ben 900 comunità cristiane, nel senso che in ogni parrocchia erano presenti a volte 20, a volte addirittura 70 o 90, piccole comunità capillarmente diffuse sul territorio. In ognuna di esse vi era, comunque, la presenza di un catechista, di un ministro dell’Eucaristia, di una donna adulta che presiedeva il culto la domenica per tutte quelle tante domeniche dove l’assenza del ministro ordinato non consentiva la celebrazione dell’Eucaristia. Quando l’arcivescovo scrive in Tra voi, però, non sia così che l’identità missionaria del popolo di Dio non si può recuperare con uno sforzo volontaristico o con i buoni propositi, mi pare che dica, al tempo stesso in modo esortativo, che si tratta di maturare un’autentica docilità allo Spirito, che è esattamente il contrario dello sforzo volontaristico.
Ma come si concretizza tale docilità?
Semplicemente ritengo che si tratti di mettere mano a quei luoghi e a quei tempi particolari dove lo Spirito soffia. Ad esempio, chiedendosi come celebriamo poiché è lì che si sprigiona il fuoco della missione, domandandosi come formare oggi pastori secondo il cuore di Dio, che abbiano anche un’indole profetica, una capacità di motivare, di incoraggiare, di confermare nella fede, maturando la vitale consuetudine ad ascoltare la Parola di Dio.
È questo l’intreccio tra Chiesa missionaria e sinodalità?
Ripenso a quante volte nell’Assemblea sinodale sia risuonato questo appello sulla bocca di papa Francesco e dello stesso arcivescovo. Ovvero che il primo compito è ritrovare la passione missionaria, perché la missione è l’ordito su cui si intesse la sinodalità, in quanto il popolo di Dio è tutto missionario. Ecco, allora, che tutti hanno il compito di contribuire a un discernimento di passi e di scelte che rendano le strutture, la formazione, le celebrazioni più consone alla missione che la Chiesa è. Questo contribuire di tutti nella comunione e corresponsabilità fraterna si chiama sinodalità.