Una “cavalcata” attraverso cinquant’anni di storia fino ai giorni nostri. A fare da filo conduttore le riflessioni di sacerdoti di diverse epoche di ordinazione. A tema la figura del prete e il suo ministero nella loro evoluzione nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Questo è stato il forum andato in onda in diretta mercoledì 11 giugno su Radio Marconi. A rispondere alle domande di Fabio Brenna e Annamaria Braccini, l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, che sabato 7 giugno ha ricordato il 50° della sua ordinazione presbiterale. Con lui don Paolo Alliata, prete da 25 anni (ordinato nel 2000), oggi membro della diaconia della Comunità pastorale San Paolo VI a Milano, rettore del Liceo Montini, saggista e scrittore. E don Riccardo Cagliani, prete da 5 anni (ordinato nel 2020), attualmente vicario di Pastorale giovanile presso la Comunità pastorale Madonna delle Grazie di Vighizzolo di Cantù (Co).
Ecco un ampio resoconto del loro dialogo.
Adriano Celentano cantava di «un prete per chiacchierar». Era abbastanza scontata l’idea che il prete “servisse” per dare retta ai ragazzi… Spostiamoci allora dalla dimensione vocazionale personale al ruolo del sacerdote. Eccellenza, com’è cambiata la pastorale in questi anni, in cui lei in Diocesi ha ricoperto anche tanti incarichi diversi?
«Cambiamento d’epoca» è l’espressione che papa Francesco ha usato per raccontare il tempo in cui viviamo. Questo cambiamento d’epoca l’abbiamo fatto anche noi: anche noi abbiamo avuto pensieri nuovi, abbiamo affrontato sfide nuove, ma certamente anche noi siamo stati cambiati dall’epoca in cui ci troviamo. Una presenza capillare della chiesa, dell’oratorio, nella città e nella Diocesi, c’è ancora, anzi forse ancor di più. Tuttavia, forse, il «prete per chiacchierar» non è più cercato.
Ecco, c’è una sorta di irrilevanza della nostra presenza nella società. Naturalmente la riduzione numerica dei sacerdoti ha il suo peso. Ma forse c’è anche una sensibilità diversa, che ritiene interessante magari parlare sui social piuttosto che creare un incontro di comunità, pensare al proprio tempo come tempo per sé, piuttosto che un tempo per dedicarsi al servizio.
Io credo che il cambiamento d’epoca trova nella comunità cristiana un principio di resistenza a questa deriva individualistica. Perciò dobbiamo riconoscere la bellezza della dedizione con cui tanti preti, tanti laici – giovani, adulti, anziani – si fanno carico di far del bene, semplicemente e quotidianamente. Magari con una specie di “afasìa” nello spiegare le ragioni profonde per far del bene: la gente è generosa, ma forse, dicendo la propria fede, ha troppo paura di disturbare.
Questi sono alcuni tratti dell’epoca che stiamo vivendo, un’epoca in cui il Signore ci aiuta a continuare la storia della Chiesa.
Don Paolo, forse 25 anni sono un periodo troppo breve, ma i cambiamenti d’epoca sono talmente veloci che è già possibile chiedere anche a lei come è cambiato il modo di fare pastorale…
È una domanda troppo difficile per me, perché richiede un’analisi delle situazioni di cui non dispongo.
Mi ricollego a quello che sosteneva l’Arcivescovo, per dire che immagino che la dimensione di una ricerca, di uno spazio di ascolto sia molto minore oggi rispetto agli anni Settanta… Però in questi 25 anni ho trovato costante nei giovani, negli adulti e negli anziani il desiderio di trovare uno spazio di ascolto. Per me questa è una dimensione tuttora fondamentale della vita pastorale. Tutte le grandi indagini sul mondo giovanile lo testimoniano: «Che cosa chiedi al mondo adulto?». «Chiedo di essere ascoltato».
Ricordo che a scuola, un paio di settimane fa, una delle mie adolescenti diceva: «Io qui sono vista, in casa no…». Questo è il grosso tema: cambieranno le forme della pastorale, ma la dimensione dell’incontro personale rimane fondamentale.
Don Riccardo, lei si è mai scontrato con quell’irrilevanza a cui faceva cenno l’Arcivescovo?
Forse sono prete da ancora troppo pochi anni, per cui non ho avuto la possibilità di imbattermi in questa situazione. Certamente all’interno del presbiterio di questi primi 5 anni, e anche della mia vita presbiterale, ci sono state invece due attenzioni positive: la paternità e l’amicizia.
È importante sentirsi accompagnati da padri che hanno già vissuto gli inizi del ministero, hanno già avuto la possibilità di incontrare qualche fatica, appunto qualche irrilevanza. La paternità è un tratto fondamentale, che io ho sperimentato e che mi ha permesso forse di arrivare a oggi con qualche consapevolezza in più.
E poi l’amicizia nel presbiterio, l’amicizia con i confratelli nata negli anni del Seminario e maturata progressivamente, che oggi ogni tanto ci “salva”.

Facciamo un piccolo gioco. In ordine al modo con cui vivete quotidianamente il ministero, quale consiglio darebbe l’Arcivescovo di Milano a don Paolo Alliata?
Don Paolo è più esperto e còlto di me, quindi mi trovo un po’ imbarazzato… Però un consiglio che voglio dargli è quello di praticare l’arte di riconoscere la gloria di Dio che riempie la terra. Ecco, vorrei che il mio motto episcopale (Plena est terra gloria eius, ndr) fosse uno stimolo a uno sguardo, a un’interpretazione che riconosca la gratitudine per ciò che si vede e ciò che si fa, che riconosca il senso di responsabilità per le sfide che si presentano, che riconosca la seminagione della speranza unita a quella del Vangelo e che riconosca la gloria di Dio che riempie la terra.
Don Paolo, lei quale consiglio darebbe a don Riccardo Cagliani?
Dico due cose che per me sono state importanti.
La prima è scoprire e coltivare le proprie passioni e metterle al servizio del ministero e delle comunità. Per me è stata una bella scoperta. Ho scoperto facendo, non è che avessi subito tutto chiaro. Nel rapporto con le persone, con le comunità, con gli oratori, per esempio scopri che ti piace raccontare: allora ecco venire fuori un’antica passione per il teatro, costruisci un gruppo teatrale, racconti il teatro attraverso la Bibbia. Consiglio di ascoltare le proprie passioni in risonanza con il contesto in cui si vive.
In secondo luogo, coltivare il senso dell’umorismo, perché ne abbiamo tanto bisogno. Aiuta a sdrammatizzare, a tenere alto lo sguardo. A me ha aiutato.
E per non rendere la vita facile a nessuno, a lei, don Riccardo, tocca dare un consiglio all’Arcivescovo di Milano…
Eccellenza, io le direi questo: sia sempre padre e rimanga sempre maestro. Credo per noi preti novellini avere padri e maestri nella fede sia fondamentale per camminare, per continuare a esercitare il ministero e anche per avere una visione evidentemente più matura del ministero. Sia padre e rimanga maestro.





