In questi mesi si discute molto su cosa sia o non sia «genocidio». Su Srebrenica non ci sono mai stati dubbi: dopo i riconoscimenti del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (2004) e dalla Corte internazionale di giustizia (2007), un anno fa, nel maggio 2024, anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che riconosce l’eccidio di Srebrenica come genocidio e istituisce l’11 luglio come Giornata internazionale di riflessione e commemorazione.
Quest’anno saranno esattamente trent’anni. L’anniversario sarà ricordato durante il convegno «Srebrenica 30 anni dopo», che si svolgerà alla Triennale martedì 10 giugno (leggi qui). A organizzare Caritas Ambrosiana e Ipsia (la ong delle Acli) che, insieme ad altri soggetti, non hanno mai smesso di operare in diverse aree del Paese balcanico, con iniziative di ricostruzione, sviluppo e riconciliazione. Ne parliamo con Sergio Malacrida, responsabile dei progetti in Europa non comunitaria del Settore internazionale di Caritas Ambrosiana.
Qual è la lezione della guerra nei Balcani oggi, in un’Europa dove la guerra è tornata?
La prima lezione che abbiamo dovuto imparare è che, purtroppo, l’attenzione della comunità internazionale non è sufficiente e lo vediamo in quanto sta accadendo in questi mesi nel mondo, dalla vicina Ucraina a Gaza, ma anche in tante altre aree di conflitto. La presenza dell’Onu non ha impedito, anzi addirittura in qualche modo ha contribuito a ciò che è accaduto tra il 9 e l’11 luglio 1995 nell’enclave “bosgnacca” (popolata da bosniaci di origine musulmana, ndr), quando le milizie serbo-bosniache uccisero almeno 8372 persone. Un numero che in realtà non è definitivo: ancora oggi è in corso una ricerca per dare degna sepoltura e memoria alle vittime e ogni anno l’11 luglio vengono tumulati i resti di coloro che sono stati identificati nell’anno precedente.
Qual è la situazione oggi in Bosnia-Erzegovina?
Quello che è accaduto in quegli anni, oltre ad aver causato traumi che si tramanderanno per generazioni, ha provocato nel Paese sconquassi notevoli. Ancora oggi la situazione non è serena. Nonostante sia un piccolo Stato, la Bosnia si è svuotata, generando tantissima migrazione, perché non c’è stata ancora una vera possibilità di ripresa, anche se lo meriterebbe. Come meriterebbe un ingresso nell’Europa comunitaria.
In che modo Caritas Ambrosiana e Ipsia sono state presenti 30 anni fa?
Ci fu un movimento di solidarietà da parte di tanti singoli cittadini, ma anche di tante comunità parrocchiali, per portare aiuti umanitari. Caritas Ambrosiana e Ipsia organizzarono attività di animazione e di supporto all’interno dei campi profughi, in Slovenia e in Croazia. In seguito abbiamo continuato a mantenere una presenza, in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani in generale, com’è abitudine delle nostre organizzazioni. Perché portare aiuti umanitari, accogliere persone, lavorare nei campi profughi durante le emergenze è necessario, ma non sufficiente. Occorre una presenza di lungo periodo.
Come si concretizza l’impegno di Caritas e Ipsia oggi?
Oggi rimangono iniziative come quella dei Cantieri della solidarietà, esperienza di volontariato estivo che anche quest’anno porterà giovani ambrosiani in Bosnia a lavorare, in questo caso accanto ai profughi migranti che percorrono ancora oggi la Rotta balcanica. Si tratta di un progetto, frutto dell’esperienza di aiuto durante la guerra, che dura da tantissimi anni e che parla di vicinanza, intercultura, dialogo interreligioso, scambio. Insomma, un lavoro culturale, per “creare ponti”. C’è poi il fronte delle attività concrete di progettualità, cioè il nostro lavoro, ininterrotto da una decina di anni ormai, lungo la Rotta balcanica. Pochi mesi fa in Bosnia, nella zona di Bihac, abbiamo aperto una safe house: si tratta di una comunità che ha l’obiettivo di accogliere sia minori stranieri non accompagnati, sia minori vulnerabili, senza distinzioni. Un tentativo di dare un’alternativa, per quanto riguarda i migranti, all’accoglienza nei centri di permanenza temporanea, luoghi poco accoglienti e che non garantiscono progetti educativi, e, allo stesso tempo, di garantire alla popolazione locale degli spazi di prossimità dignitosi, secondo standard europei. Speriamo così di motivare anche le istituzioni locali a fare dei passi avanti verso un’integrazione europea.



