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Esperienze

«Oltre il carcere», fragilità che si incontrano

Il 15 aprile a Rho serata dedicata al progetto che ha messo a confronto detenuti di Opera e pazienti affetti da disturbi psichiatrici seguiti dalla Fondazione Sacra Famiglia. Interviene l’ex magistrato Gherardo Colombo

di Claudio URBANO

15 Aprile 2024

Può sembrare quasi un azzardo, un curioso esperimento sociale il singolare progetto di giustizia riparativa che verrà raccontato lunedì 15 aprile a Rho (appuntamento alle 21, all’auditorium Maggiolini) nell’ambito dell’iniziativa «Dialoghi di inclusione. Confini e passaggi». Un’audace scommessa, si diceva, perché si parlerà dell’incontro tra un gruppo di detenuti del carcere di Opera e i pazienti affetti da disturbi psichiatrici seguiti dalla Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, nel proprio Centro diurno “Il Cameleonte”.

Da una parte i “cattivi”, dall’altra i “matti”, dunque. Vissuti differenti accomunati dallo stigma che si assegna ai comportamenti antisociali, e da una propria prigione: quella fisica di uno spazio ristretto e del tempo da trascorrere in carcere per i primi; quella di una mente che fatica a trovare luoghi e contesti per esprimersi sollevata dalle proprie sofferenze per gli altri. Per entrambi, però, il desiderio è poter andare «Oltre il carcere», come recita il titolo dell’incontro, a cui parteciperà anche l’ex magistrato Gherardo Colombo.

Contribuire a un percorso

Anticipa il racconto dell’esperienza Barbara Migliavacca, responsabile del Centro diurno della Sacra Famiglia, che con i suoi pazienti ha risposto all’invito in carcere dei volontari dell’associazione In Opera (gruppo nato dalla Sesta Opera San Fedele e animato dagli stessi detenuti, che puntano a creare già in carcere occasioni concrete di esercizio e di gestione della propria responsabilità) di contribuire a un percorso di giustizia riparativa: «Una giustizia che non significa solo scontare una pena, – sottolinea -, ma anche la possibilità di ricucire relazioni». Uno scambio iniziato nel 2019, quando i detenuti avevano incontrato altri ospiti della Sacra Famiglia, affetti da un ritardo cognitivo. «Questa volta, invece, le persone che entrano con noi in carcere soffrono di disturbi psichici, ma in molti casi riescono a condurre una vita autonoma», specifica Migliavacca. Ogni due settimane, il giovedì pomeriggio, i malati del Camaleonte superano dunque i controlli di sicurezza, attesi da una ventina di detenuti: si realizza così, dietro le sbarre, l’incontro tra due fragilità, tra due mondi che in genere rimangono invisibili.

Presa di coscienza

«Come per tutte le nostre attività l’obiettivo è far sì che i pazienti prendano contatto quanto più possibile con la parte più sana di sé», sottolinea Migliavacca. E lo stesso, in fondo, vale per i detenuti, tanto che l’intuizione di uno loro è diventata lo slogan dell’intero percorso, da cui è nato anche uno spettacolo teatrale, Emozioni in Opera: «Noi non siamo il nostro reato, così come voi non siete la vostra malattia», ha esclamato durante gli incontri uno dei ristretti. Una conclusione scaturita da un lavoro sulle emozioni: «Abbiamo messo in campo quello che già facciamo con i nostri pazienti», prosegue Migliavacca, «lavorando sulla presa di coscienza di ciò che ciascuno prova: attraverso giochi, lavori di gruppo, disegni si prova a dare un nome ai propri stati d’animo, e a riconoscerli negli altri. È stato come guardarsi allo specchio: le rispettive fragilità erano riconoscibili, e questo ha reso più facile entrare in relazione». Agli operatori il compito di condurre gli incontri, mantenendo quelle attenzioni che rendono possibile il confronto. «Uno dei nostri pazienti – fa un esempio Migliavacca – è un tifoso sfegatato del Milan, e, quando si tocca l’argomento, manifesta atteggiamenti di ipereccitabilità: ai detenuti, quindi, abbiamo chiesto di evitare le classiche battute che si fanno dopo le partite». Parte del lavoro è, naturalmente, anche la rilettura dell’esperienza, per far emergere quei vissuti che hanno maggior valore. La scoperta è reciproca, sempre nella direzione della normalità: «i nostri pazienti non appaiono così “matti”, mentre per i detenuti, al di là dei loro errori, si scopre la possibilità di un’elaborazione del vissuto e di una crescita», riassume la responsabile del Camaleonte.

Da destinatari a protagonisti

Quest’anno il percorso prosegue sul tema della cura, per la propria persona e per gli altri; e al gruppo di utenti della Sacra Famiglia che entra in carcere, finora tutti maschi, si sono aggiunte anche due donne. Un atteggiamento di cura di cui in questo caso i pazienti sono non solo destinatari, ma diventano protagonisti nei confronti dei detenuti, in quello che per loro è un vero e proprio rovesciamento di ruoli. «I nostri pazienti sentono di essere, in queste circostanze, essi stessi i volontari, e sono ben consapevoli di avere un ruolo terapeutico per chi incontreranno – nota Migliavacca -: «sentono di poter offrire, con il proprio contributo, occasioni di riflessione, di riabilitazione», in uno scambio che diventa arricchimento reciproco.