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Milano

Mazzolari, nessuna giustizia senza misericordia

All’Ambrosianeum presentato «Oltre le sbarre, il fratello», che raccoglie le riflessioni del parroco di Bozzolo sul carcere: «La vera sfida è credere nel bene senza negare il male». Annunciato un gesto simbolico di politici bipartisan dedicato al tema della reclusione

di Annamaria BRACCINI

29 Maggio 2025

«Oltre le sbarre, il fratello». Un titolo, per 134 pagine di scritti, che non avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni nella sua lapidaria chiarezza, se non fosse che parlare dell’autore, don Primo Mazzolari, sembra non bastare mai. Anche a più di 65 anni dalla sua morte – il parroco di Bozzolo era nato in una frazione di Cremona nel 1890 e tornò alla casa del Padre il 12 aprile 1959 -, infatti, Mazzolari si rivela una figura profetica, capace di affrontare con straordinaria modernità anche il tema del carcere e della giustizia.

Come si evince dal saggio (pubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna), curato da don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni, rispettivamente postulatore e vicepostulatore della Causa di beatificazione di don Primo, con la prefazione dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio monsignor Gian Carlo Perego. Il volume è stato presentato presso la Fondazione Ambrosianeum dai due curatori, moderati da don Gianluca Montaldi dopo il saluto introduttivo del presidente della Fondazione Fabio Pizzul, che svela come presso l’Ambrosianeum stesso si sia tenuto, nei giorni scorsi, un incontro per prepararne uno ulteriore tra politici e intellettuali ambrosiani per «costruire un gesto simbolico, nell’anno del Giubileo, in chiave bipartisan, dedicato al mondo della reclusione, perché poco si fa affinché il carcere diventi un luogo di cittadinanza».

Il saluto di Fabio Pizzul

Il dialogo

«A volte vedere, oltre le sbarre, la presenza del Cristo è scandaloso e, soprattutto, difficile. Ma se dietro le sbarre c’è un fratello significa che mi appartiene», spiega don Zanaboni, che ricopre anche l’incarico di responsabile dell’Ufficio missionario della Diocesi di Cremona, ricordando la fondazione del quindicinale Adesso da parte di Mazzolari, nel 1949, «per “tirarsi su le maniche” nella fase di ricostruzione del Paese». Foglio dove egli affrontò «tanti temi, dalla pace al carcere, partendo dalle opere di misericordia corporale» e attirandosi (sia detto per inciso) le sanzioni dell’autorità ecclesiastica, che ordinò la chiusura del giornale nel 1951 e, successivamente, l’interdizione a predicare fuori dalla parrocchia e dalla diocesi.

«Mazzolari pensa che non esista giustizia senza misericordia con una visione della giustizia aperta», dice da parte sua don Bignami, direttore dell’Ufficio Cei per i Problemi sociali e il Lavoro. «La giustizia è nelle mani di pochi, la misericordia in quelle di tutti e, quindi, è compito di ognuno mettere le persone nelle condizioni di redenzione, per usare un’altra espressione tipica di don Primo». Anche se, certo, il sacerdote cremonese non usa il termine “giustizia riparativa” – che prevede oggi un cammino di interazione, avvicinamento e conoscenza reciproca tra vittima e colpevole -, ma che guarda, comunque, alla ricomposizione matura della ferita subìta e inferta, rimandando a un percorso. «Una giustizia relazionale che non si esaurisce con lo scontare la condanna comminata dalla giustizia, come realtà terza tra colpevole e vittima. È chiaro che si tratta di due prospettive molto diverse, ma la vera sfida rimane quella di credere nel bene, che non significa negare il male, ma ricomporlo in uno schema diverso». Come si legge nel libro, nelle pagine che riportano un’indimenticabile catechesi del parroco di Bozzolo, pronunciata in San Pietro in Gessate il 21 novembre 1957 (parlò anche ai detenuti di San Vittore), nel contesto della grande “Missione di Milano”, voluta dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini che lo aveva coraggiosamente chiamato tra i predicatori.  

I relatori e il moderatore

«La misericordia è la gemma della speranza»

Due la ragioni, secondo Zanaboni, per un così profondo interesse mazzolariano per il mondo della reclusione: «Il fatto di aver vissuto sulla sua stessa pelle l’esperienza carceraria, accusato di aver aiutato le Fiamme verdi, organizzando la Resistenza nella canonica di Bozzolo, con gli arresti dell’11 febbraio del 1944 e poi del 30 luglio dello stesso anno e, infine, la fuga per evitare un altro mandato di cattura dell’agosto del 1944, dandosi alla macchia. E, secondo, la vicinanza ai carcerati originari della sua parrocchia, con aiuti materiali e spirituali, mantenendo anche una corrispondenza epistolare con queste persone e i loro familiari, per cui alla Fondazione Mazzolari sono state reperite quasi 13.000 lettere. Mazzolari visitava anche i fascisti, perché era un prete di tutti e lo racconta uno degli anziani rimasti che lo conobbero, Adelmo Paganini – aggiunge il Vicepostulatore -. Lo chiamavano, nel dopoguerra, l’avvocato dei perdenti. Sembra di sentire papa Francesco, in visita a Regina Coeli nel giovedì santo scorso o all’apertura della porta santa a Rebibbia».

Don Bruno Bignami

Ma come costruire strade e cammini per dimostrare nei fatti che tale percorso è possibile, chiede il moderatore. Chiara la risposta di don Bignami, che svolge anche volontariato e pastorale proprio nella Casa circondariale femminile di Rebibbia: «La misericordia ha un ruolo educativo, perché apre al futuro, il che significa che la persona è sempre più del gesto che ha compiuto e che, quindi, anche la persona stessa può ripensarsi in modo diverso. Le comunità cristiane dovrebbero imparare ad adottare i detenuti, mantenendo rapporti e facendo capire che vi è una disponibilità ad accompagnarli in carcere e dopo. Perché il loro dramma spesso è di sentirsi abbandonanti, specie i più fragili, tanto che talvolta le solitudini di chi esce sono tali che è preferibile compiere ancora un reato per “andare dentro” e sappiamo che voler tornare in carcere oggi richiede coraggio. Occorre riconoscere che noi abbiamo avuto possibilità enormi e a tutti non è concesso. Il mistero e il fascino del male esistono e, perciò, è necessario comprendere come educare al bene. Diceva Francesco ai detenuti, “I pesci grossi non sono qui” ed è vero.  Questo ci fa chiedere se vi è veramente una giustizia per tutti e una possibilità di riparazione per tutti».

La domanda è se don Primo potrebbe essere il patrono dei detenuti: «Certamente, ma pure dei preti, anche rispetto a chi lo è già – Giovanni Maria Vianney, il Santo curato d’Ars – perché Mazzolari seppe leggere i segni dei tempi, rilanciando una possibilità di tessitura pastorale che oggi è molto significativa».  

Infine, il pensiero torna all’immediato dopoguerra, con la questione dell’amnistia e dell’indulto voluti dal governo nel 1946, con l’obiettivo di pacificare la nazione, di cui lo stesso Togliatti fu uno degli artefici facendo in modo che i detenuti per reati politici (ossia i fascisti) potessero uscire dal carcere: «Questo fu un gesto che indicò che il Paese non stava dentro le logiche della vendetta, ma tentava uno sguardo comune. Mazzolari – di cui si sta concludendo la fase diocesana della Causa di Beatificazione nella speranza che vengano riconosciute le virtù eroiche e la venerabilità – saluta questo indulto come un’aria diversa e scrive su Il Popolo nuovo il 30 giugno del 1946; “La repubblica ha un cuore”». Conclude don Bignami: «Dove i cittadini non sanno perdonarsi, la Repubblica non può essere né libera, né sicura».