«Mi ha colpito moltissimo quando sostiene che noi rischiamo di non far sentire più cittadini i milanesi. Questo è un avvertimento accorato dell’Arcivescovo, che tra l’altro poi invita tutti a farsi parte diligente della metropoli. L’idea che ci si disinteressi della casa comune, della sua stabilità, del suo modo di crescere: è questo il pericolo di una perdita del significato reale della cittadinanza, a maggior ragione per un cattolico». Lo sostiene Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, commentando il Discorso alla città di monsignor Mario Delpini.
L’Arcivescovo parla di una generazione che ha paura del futuro, in particolare di molti ragazzi che si rifugiano nell’isolamento oppure nella violenza e nello sballo, come emerge anche da recenti fatti di cronaca. Gli adulti sono testimoni credibili e quale risposta si può dare al disagio giovanile?
Nel Discorso di Sant’Ambrogio c’è un’accusa velata – affettuosa, se vogliamo – anche alla mia generazione. Avete fatto fino in fondo il vostro dovere di padri e di madri? La risposta è no, non l’abbiamo fatto fino in fondo. Se i nostri figli – che tra l’altro sono pochi – sono così fragili e a volte si sentono abbandonati ed esclusi dalla città, dalla società, ebbene forse qualche responsabilità ce l’abbiamo.
Città che non vogliono cittadini dice l’Arcivescovo, a partire dall’eccessivo costo delle case. Lei ha scritto recentemente che «Milano è vittima del proprio successo», di una città per ricchi. È il fallimento del cosiddetto modello Milano?
No, non credo che sia il fallimento del modello Milano, che è quello dell’accoglienza e della possibilità offerta a tutti (purché vogliano lavorare, studiare, intraprendere) di formarsi il proprio futuro e di avere successo, di poter essere protagonisti della società. Penso che ci sia stata una distorsione del modello Milano, un eccesso di alcuni aspetti legati soprattutto alla sua internazionalizzazione. Quando l’Arcivescovo parla di questo senso di non cittadinanza, penso che sia legato anche al fatto che per esempio a Milano – lo potete constatare – aprono tantissimi posti bellissimi, visti da fuori, nei quali i milanesi non entreranno mai, perché non potranno permetterseli.

Milano capitale di una finanza che per Delpini è al servizio dell’individualismo che ignora la funzione sociale e la responsabilità morale, creando forti disuguaglianze. Parla di capitalismo malato e sottolinea anche l’ingente afflusso di denaro sporco. Milano ha gli anticorpi per reagire?
Milano ha sempre avuto gli anticorpi per reagire, però negli ultimi tempi ha mostrato una porosità soprattutto a nuovi fenomeni di grande criminalità, specie internazionale, che dovrebbe preoccuparci. Dopodiché il giudizio sul capitalismo di Delpini è fin troppo severo. Abbiamo comunque ancora, per fortuna, un’imprenditoria che ha un senso di responsabilità sociale, che quindi è protagonista del welfare. E soprattutto anche un privato sociale estremamente importante, il volontariato che – dice giustamente Delpini – si sente estraneo, a volte non rappresentato. È come se ci fosse una frattura tra la Milano solidale e quella del successo, dell’internazionalizzazione, del trionfo della finanza.
Sempre più persone rinunciano a curarsi per problemi economici, per liste di attesa lunghissime, nonostante le eccellenze di Milano e Lombardia. Il modello sanitario lombardo va rivisto?
Indiscutibilmente sì. Personalmente non sono d’accordo che tutto debba essere pubblico, ma c’è stato un eccesso di presenza privata. Questo modello lombardo, più che milanese, presenta alcune criticità, come le liste d’attesa molto lunghe. Al di là di quello che accade realmente nel sistema sanitario (perché noi comunque abbiamo un sistema di straordinaria qualità), molti non si sentono più cittadini in questa città e di non poter avere in futuro più accesso alle cure di cui hanno bisogno. È anche un sintomo della fragilità di una società che è sempre più anziana.
Il carcere è sempre al centro dell’attenzione dell’Arcivescovo: parla di una situazione intollerabile per sovraffollamento, presenza di persone con malattie psichiche, suicidi, prevalenza della mentalità repressiva piuttosto che recupero del detenuto. Quali risposte si possono dare?
Intanto di fare delle carceri un’emergenza, mentre non lo è mai stata. Ce ne occupiamo, tutti sono d’accordo, ma poi nessuno si prende la responsabilità politica di attuare qualcosa. Forse le carceri vanno sfoltite, ma politicamente non credo che ci sia la possibilità quantomeno di un indulto. Tutte quelle persone restando in carcere rischiano di avere una recidiva superiore, di uscire e poi di tornare a delinquere. Tra l’altro la nostra società è molto diversa da quella degli anni Sessanta e Settanta, nella quale magari un indulto era più facile, più politicamente percorribile. Adesso però ci affidiamo a una rete: facendo volontariato vedo tantissime persone e associazioni che si occupano del dramma delle carceri.
Di fronte a questa situazione così problematica l’Arcivescovo ha parole di speranza sollecitando tutti a farsi avanti nell’impresa di aggiustare il mondo, a una responsabilità condivisa. Cosa ne pensa?
Quella parte è bellissima. Trovo che questo messaggio di Sant’Ambrogio sia uno dei migliori scritti e pronunciati dall’Arcivescovo. C’è per ognuno di noi, qualunque sia la nostra attività e il nostro ruolo della società, un impegno a farci avanti. Purtroppo vediamo una società nella quale spesso si fanno molti passi indietro.




