«Ho conosciuto Carlo in prima media all’Istituto delle suore Marcelline. Avevamo 10-11 anni, ed eravamo diventati compagni di classe. Poi, nel tempo, abbiamo instaurato un’amicizia sempre più profonda e forte, che è durata fino alla sua morte». Federico Oldani, oggi ingegnere aerospaziale, ricorda con parole semplici e la voce, talvolta, incrinata dall’emozione, un’amicizia che ha segnato la sua vita – come quella di tanti altri -, anche se sono passati quasi vent’anni dalla scomparsa di Carlo Acutis. Appunto, quel suo compagno di classe così particolare da essere proclamato santo.
Come era Carlo tra i banchi di scuola?
Era un compagno di classe vivace, allegro: una persona piena di vita ed estremamente esuberante. Simpatico nel vero senso della parola, genuino. Ho dei ricordi – dei grandissimi ricordi – di tante risate insieme. Avevamo un umorismo molto simile e non mancavamo di usarlo anche in classe.
Insomma, due amici un po’ discoli…
Non tanto. Io ero più diligente, mentre Carlo, molto più estroverso di me, era anche però più maturo. Io andavo a scuola con il paraocchi, direi oggi, lui no, perché già aveva una visione aperta della vita, della scuola, del mondo. Se c’era qualcosa da fare di interessante al di fuori della scuola, magari tralasciando i compiti, lui lo faceva.
Quando Carlo si è ammalato, eravate in contatto?
Allora frequentavamo due istituti differenti, ma ci sentivamo ciclicamente per organizzarci e ci vedevamo tutte le settimane. Poi è arrivata la malattia, che è durata poco: tutto è stato molto veloce e improvviso. Quando non l’ho sentito, ho incominciato a chiedere, a informarmi. Neanche il tempo di capire cosa stesse succedendo, di organizzare una visita, che non c’era già più niente da fare. Quando è venuto a mancare, ho partecipato alla Veglia, che è stato il momento più doloroso per me, con la camera ardente. Ho visto il corpo e la cosa è avvenuta nella sua stanza, dove giocavamo. È stata una sensazione molto forte.
Sono passati quasi vent’anni dalla scomparsa di Acutis. La memoria non rischia di perdersi?
Io ho cercato di tenerla viva in me e ci tengo molto. Anche perché, in virtù del grande risalto mediatico della sua figura, tento di non farmi influenzare troppo da quello che viene detto. Per questo rimango attaccato ai miei ricordi privati. Lui oggi è un personaggio pubblico ed è normale che ci siano discrepanze tra questa dimensione e i piccoli episodi della vita di quei ragazzini che eravamo, a cui però io rimango molto legato. Era un mio grandissimo amico e non vorrei rischiare di dimenticarlo mai, tenendo per me alcuni ricordi che sono nel mio cuore, nel mio io profondo.
Voi compagni avreste mai immaginato che Carlo sarebbe diventato santo?
No, almeno personalmente, non potevo immaginarlo, anche perché lui era molto discreto quando si trattava di questioni religiose. Il periodo delle scuole medie è uno dei periodi più critici, forse anche per comunicare. Non gli piaceva in generale parlare troppo di questioni così private come la fede e le attività che lui svolgeva in parrocchia e nel volontariato. Noi compagni sapevamo qualcosa – che, ovviamente, lui ci raccontava -, però erano sempre piccoli aneddoti. Sapevamo, per esempio, del tempo che trascorreva in parrocchia a Santa Maria Segreta, proprio davanti alle Marcelline. Ma non era certo il suo argomento di discussione principale. Con noi parlava di cose che piacevano ai ragazzi, di questioni che erano in comune. Anche in questo, nonostante la giovane età, era fine e maturo: conosceva le persone e stava attento ad approcciare ciascuno nel modo giusto.
Qualche volta si affida a Carlo?
Non sono religioso, ma sì, a volte mi affido a lui. Faccio parte dell’associazione “Amici di Carlo Acutis”, che vuole tenere viva la sua memoria, richiamando ciò che egli era. Un ragazzo buono, simpatico, come ho detto, normalissimo, ed estremamente empatico.




