Speciale

Tettamanzi, le parole e i gesti

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Il dialogo

Fianco a fianco con credenti e non credenti

Sul tema della libertà religiosa e di culto si è mostrato più laico degli amministratori locali, aggrappatisi in maniera strumentale alla croce coltivando il pregiudizio popolare

di Gad LERNERGiornalista e scrittore

20 Agosto 2017

Il cardinale Dionigi Tettamanzi è arrivato a Milano quando la gente era scioccata dagli attentati dell’11 settembre 2001. Era diffusa una profezia di sventura secondo cui il mondo islamico era indistintamente minaccioso, ostile, oscurantista, pronto a invaderci e a riprodurre in casa nostra l’esperienza del terrorismo suicida attraverso la leva degli immigrati, di colpo visti come “infiltrati”.

Il Cardinale si è trovato a dover fronteggiare questo sentimento, a mio avviso penetrato anche dentro la Chiesa: ricordo angosciose previsioni sull’imminente scristianizzazione dell’Europa, sull’invasione islamica che avrebbe potuto convertire il vecchio continente e cancellarne le radici religiose; oppure i richiami a una religione identitaria, la necessità – da parte degli stessi non credenti – di ricorrere alla simbologia e alla dottrina cristiana, anche senza un supporto di fede, pur di avere un’armatura ideologica da contrapporre al mondo esterno… Un’ideologia a corto di fede e di speranza, ma che era diventata senso comune.

Credo che agire in quella Milano dei primi anni 2000, segnata e anche ottenebrata da questi sentimenti, non sia stato semplice. Senza dimenticare, all’inizio, la vasta e comprensibile tendenza a tracciare un confronto con il suo predecessore, il cardinale Martini: non deve essere stato simpatico, questo, per Tettamanzi… Ma lui ne è uscito bene, con una tenuta culturale e più ancora di fede. Quel pessimismo diffuso secondo cui si doveva affrontare una fase di resistenza, respingere un assedio, tenere accesa una fiaccola, l’Arcivescovo l’ha superato grazie alla fede.

Di lui abbiamo percepito anzitutto lo spessore umano, la giovialità, il tratto di una persona sempre pronta al sorriso e a preoccuparsi dei problemi, anche modesti, di ciascuno: questo stile, che all’inizio poteva persino sembrare un handicap, è cresciuto ed è diventato il simbolo del coraggio di sfidare sentimenti diffusi. Ma credo che alla base dell’umanità del Cardinale vi sia stato davvero il mistero della fede: vale a dire credere che il cristianesimo non muore in Italia e in Europa a causa dell’evoluzione della società, dei nuovi arrivati, delle avversità della storia.

Saper stare nella storia è stata un’altra grande dote di Tettamanzi. Ha saputo valorizzare gli elementi migliori della Chiesa ambrosiana e lui stesso è stato un vescovo educato dal suo popolo, dalla sua Chiesa. Ha interpretato generosamente le novità dell’immigrazione, della coesistenza nella nostra società di culture diverse e anche del nodo più difficile: il rapporto con l’Islam. Ha mantenuto la barra dritta sul principio della libertà di culto per tutti, del diritto di avere luoghi di preghiera dignitosi per tutti quelli che vogliono pregare, non accettando lo stereotipo dell’equivalenza automatica fra Islam e integralismo. Sul tema della libertà religiosa e di culto si è dimostrato più laico degli amministratori locali, che si sono invece aggrappati strumentalmente alla croce, coltivando il pregiudizio popolare. Ha riproposto un senso di comunità e di cittadinanza capace di coinvolgerci tutti. Scelte per nulla scontate e che in questi anni hanno contribuito a fronteggiare chiusure egoiste e manipolazioni delle tradizioni religiose a fini separatisti.

Giù il cappello di fronte a chi, in nome di ciò in cui crede, è pronto a sfidare le ostilità. Il cardinale Tettamanzi ha pagato queste sue convinzioni con coraggio, sopportando anche epiteti insultanti e certo per lui dolorosi; ma in quel frangente ha mostrato una tempra e un’autorevolezza meritevoli di una memoria riconoscente.