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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Milano

Colombo e la sua Università, memoria e realtà vive

Nella chiesa di San Marco e nel contesto del 35mo dell’ateneo della Terza Età presentati due volumi che ripercorrono anni complessi per la Chiesa e la società attraverso la figura e l’episcopato del Cardinale, «Vescovo limpido e incisivo», come l’ha ricordato monsignor Delpini

di Annamaria BRACCINI

1 Febbraio 2018

«È stato il Vescovo della nostra giovinezza che ci ha ordinati sacerdoti…». «L’ho conosciuto personalmente durante gli anni di Seminario e nei primi anni del mio Ministero, dopo l’ordinazione presbiterale ricevuta per l’imposizione delle sue mani nel 1975…». Nelle parole di monsignor Luigi Testore – che apre l’incontro “Ricordando Giovanni Colombo, maestro di fede e di vita” – e in quelle dell’Arcivescovo che lo chiude, c’è tutto il senso del ritrovarsi nel nome del Cardinale tra ricordi personali e ricostruzione dei tempi del suo non facile episcopato.

L’occasione è la presentazione di due volumi (per un totale di oltre 1500 pagine), editi da Jaca Book con i titoli Avvenimenti e incontri e Pastorale e spiritualità, in un luogo-simbolo colombiano, come la chiesa di San Marco dove ha sede l’Università della Terza Età, voluta proprio da Colombo. Monsignor Renzo Marzorati, preside dell’Ateneo e assistente spirituale del Movimento della Terza Età (il Coro pluridecennale del Movimento accoglie l’Arcivescovo con un canto dell’Alleluia) spiega: «Il Movimento, fondato nel 1973, a cui aderiscono oggi oltre 10 mila persone in ogni zona della Diocesi, è e rimane vivo. Dieci anni dopo, nel 1983, il Cardinale volle avviare quello che chiamava l’Ateneo degli anziani, con una scelta felice e profetica. Fu la prima Università di questo tipo in Italia».

La storica Eliana Versace, che con monsignor Francantonio Bernasconi ha curato i due volumi, aggiunge: «Il rapporto di Colombo con papa Paolo VI è importante e paradigmatico per comprendere la figura dell’allora Arcivescovo». Cita, Versace, una lettera in cui Colombo chiedeva a Montini un documento chiaro e fermo, alla conclusione dell’Anno della Fede, proprio sulla fede, specie guardando ai giovani: «Siamo nel 1968, nel pieno della Contestazione, e ciò è indicativo. Colombo fu un educatore, un insegnante, un amante della letteratura, passione che aveva appreso dal suo maestro Giulio Salvadori, da cui mutuò anche il cristocentrismo estetico. Fu faro e Pastore in una società disgregata per ricondurre all’unità il suo gregge. Infatti, la sua voce era molto ascoltata nella Conferenza episcopale italiana. Tra il 1965 e il 1966 fu ai vertici della Cei in un triumvirato con l’arcivescovo di Firenze Florit e il Patriarca di Venezia Urbani. Il suo fu un magistero intrepido».

Spiegando la nascita dei due tomi, monsignor Bernasconi sottolinea: «Si tratta di una scelta del meglio dei 91 “Quaderni Colombiani” editi dal 2002 al 2017. Questi Quaderni sono sorti, in maniera operativa, dopo che il cardinale Martini, inaugurando il Centenario della nascita del suo predecessore, mi aveva invitato a approfondirne la figura e i tempi in cui visse. Tempi esaltanti per la Chiesa, con il Concilio che Colombo portò a Milano, e travagliati per la società, con il ’68». Poi fu il cardinale Tettamanzi a esortare a mettere in stampa il materiale e così fece anche il cardinale Scola, specie, da quando, nel 2012-2013, creò un Comitato per l’Anno Colombiano a cinquant’anni dall’inizio dell’episcopato e nei 110 anni dalla nascita. «I volumi sono come i mattoni di quell’edificio che vorrei che fosse – e che dovrebbe essere – la biografia completa del Cardinale», conclude don Francantonio, segretario di Colombo negli anni della vecchiaia e attento custode della sua memoria. Una «presenza premurosa, fedele e delicata, discepolo e ammiratore del maestro, del Vescovo e dell’amico. Prezioso e intraprendente indagatore dell’animo pastorale del Cardinale in ambito civile ed ecclesiale», dice monsignor Delpini, ringraziando del lavoro divulgativo svolto.

Quattro i tratti che l’Arcivescovo mette in evidenza del predecessore, che fu sulla Cattedra di Ambrogio e Carlo dal 1963 al 1979.

«Un primo tratto è la virtù di fare bene quello che non si ha voglia di fare. Il suo desiderio più vivo era di dedicarsi alla letteratura, ma già vicino alla possibilità di diventare docente di Letteratura italiana in Cattolica, dovette ubbidire al rettore maggiore del Seminario di allora, monsignor Francesco Petazzi, che lo volle rettore del Seminario liceale. Un’obbedienza che gli costò molto: tuttavia, seppe fare così bene da segnare in profondità il percorso dei seminaristi. A Milano, in anni inquieti per le dinamiche civili ed ecclesiali, di contestazione anche nella Chiesa e nei Seminari, la sua capacità propositiva, non venne mai meno, continuando a essere presente sul territorio».

Un secondo aspetto è quello che Delpini chiama l’itinerario verso una fede purificata: «Da un contesto devozionale e popolare, egli percorse un cammino verso quel cristocentrismo, peculiare dei Seminari di Milano, che non ha bisogno di manifestazioni straordinarie. Anche dal suo testamento emerge con chiarezza questo elemento. “E non videro che Gesù” è il brano evangelico che Colombo avrebbe potuto fare suo come motto».

Un terzo tratto è la competenza nelle questioni inerenti il sacerdozio: «La sua sensibilità umana è stato un riferimento per il clero ambrosiano. Non a caso, due dei suoi tre interventi al Concilio riguardavano la spiritualità del prete e la formazione seminaristica. La sua dottrina sul sacerdozio non ha uno specifico approfondimento specialistico, ma è una sintesi equilibrata e saggia che seppe tenere insieme i diversi aspetti del Ministero ordinato». Una lezione da apprezzare, specie perché proposta in un’epoca postconciliare nella quale l’identità del prete «era diventata una questione inquietante, sia a causa delle crisi personali di molti presbiteri negli anni Settanta, sia per derive estremistiche».

Infine, la ricerca che contraddistinse il cardinale Colombo, sempre attento all’uso della parola appropriata, della formula stilisticamente corretta: «Certamente ciò fu frutto della sua raffinata formazione letteraria, ma possiamo dire che non sia, questo, un particolare puramente formale. La sua capacità di farsi capire fu apprezzabile, limpida nella comunicazione del pensiero e incisiva».

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