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Intervista

Colmegna: «Sui migranti basta scontro ideologico, puntare sull’integrazione»

Il Presidente della Casa della carità: «Bisogna smetterla di rendere tutto un problema, perché questo rende più difficile la coesione sociale, che è fondamentale. Va superato il Regolamento di Dublino, senza però massacrare i diritti e non abbandonando le persone sul territorio»

di Pino NARDI

16 Luglio 2019
Don Virginio Colmegna

«Spero che in Parlamento si cambi e si discuta di una nuova legge sull’immigrazione. Ci si occupa solo di sbarchi, alimentando una situazione drammatica che crea un’angoscia anche collettiva di sofferenza, ma non c’è più una progettualità». Lo sostiene don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, da sempre alfiere della cultura della solidarietà e dell’accoglienza, associata a quella della legalità e della sicurezza.

Sulla questione migranti e rifugiati si sta giocando una partita decisiva per il consenso. Tuttavia la confusione e la disinformazione sono notevoli. Come leggere questo fenomeno?
Innanzitutto non si tratta di un’emergenza, ma di un fenomeno strutturale. I dati lo stanno dicendo chiaramente, però la percezione è molto diversa. L’operazione massmediatica che parla di invasione ci mette sotto continuo attacco con furore ideologico. Dovremmo invece seriamente riflettere sul vero problema migratorio: come regolarizzarli e inserirli nei processi produttivi. Adesso si sta creando una situazione paradossale: l’unico modo di accesso nel Paese è l’essere richiedenti asilo, oppure attraverso la testimonianza dei corridoi umanitari.

Il Decreto sicurezza sta inoltre causando situazioni difficili da gestire…
Infatti, avendo tolto la protezione umanitaria si stanno verificando casi drammatici. Ne racconto due recenti. Un giovane africano ha ottenuto una borsa lavoro, è stato inserito e assunto regolarmente, ma quando è andato a chiedere il permesso di protezione umanitaria gli è stato negato e adesso è in strada; nonostante il percorso fatto ha perso i diritti costruiti con sapienza e intelligenza. Un’altra persona che soffre di problemi psichici era stata presa in cura. Dopo tre anni di accoglienza nella Casa della carità è poi stata curata in un appartamento, seguita in una serie di comunità. Un bel processo respinto: questo significa che non ha più cure sanitarie, diventa un irregolare sofferente che sta sulla strada. Noi cerchiamo di tenerli dentro, ma i casi si stanno moltiplicando.

Come affrontare allora queste situazioni?
Dobbiamo farlo non tanto con lo scontro ideologico, ma discutendo come affrontare il problema della regolarizzazione attraverso processi di inserimento lavorativo, formazione professionale e cura laddove è necessario. Inoltre su come programmare i flussi, che non ci sono più. L’ho detto nell’audizione alla Commissione Giustizia della Camera, dove ho portato il progetto di “Ero straniero”, con le 90 mila firme raccolte: non cercate di ingabbiarci in un’immigrazione solo sugli sbarchi, dove basterebbe una coscienza umanitaria per salvare vite.

Qual è la vostra proposta? Spesso si è accusati dell’«accogliamoli tutti»…
Noi siamo per un’accoglienza regolata. Bisogna smetterla di pensare di rendere tutto un problema, perché questo rende più difficile il programma di recupero e la coesione sociale, che è un elemento fondamentale. Come ha ribadito anche in un recente incontro con i miei compagni di 50 anni di Messa, papa Francesco parla sempre di un’accoglienza sulla base dei principi, perché anche biblicamente il tema dello straniero appartiene a una cultura di umanità allargata. Poi parla di prudenza, con la capacità di regolare e governare questo percorso. Non dice: fate la politica dell’accogliamoli tutti. Dice invece che l’accoglienza è un valore insostituibile, che deve produrre una sollecitazione politica e legislativa, che ponga il problema europeo della regolamentazione. Chi vive la cultura dell’accoglienza non accetta che ci siano caravanserragli, persone abbandonate; è tra i primi ad avvertire il bisogno di una politica capace di diffondere le presenze in un’Europa che ritrova le proprie radici cristiane.

In concreto come si traduce?
Va superato il Regolamento di Dublino, sollecitando l’Europa senza però massacrare i diritti, non abbandonando i migranti sul territorio, evitando di creare la radicalizzazione dello scontro ideologico, con una politica fatta solo di urla, di talk show che in maniera ossessionante continuano a prendere un fatto, discuterlo, renderlo pro o contro in una diatriba che poi lascia sul territorio macerie culturali, invece di immettere energie positive. Il patrimonio di solidarietà che ha prodotto anche la difesa dei diritti rischia di essere invocato da tutti, ma solo come testimonianza. Anche noi che ci muoviamo con altre motivazioni di carattere spirituale, legate al Vangelo, lo facciamo però da cittadini, nella pienezza della cittadinanza, insieme a tutti coloro che vivono una Repubblica fondata su questo patrimonio di valori.

Tuttavia anche nelle comunità cristiane e tra alcuni sacerdoti si sta facendo largo una logica di chiusura e di ostilità, dimenticando le parole del Vangelo. Questa situazione come la interroga?
Certo, anche nelle nostre comunità cristiane bisogna sottolineare che non esiste solo «io, lo straniero…». «Prima le persone» significa ricreare lo stile di generosità fondante per la nostra fede legata al Vangelo. Il Papa non è ossessionato dal problema migratorio, ma avverte che in questo si sta lacerando un tessuto di umanità, che poi diventa un terreno che non feconda. La parabola del Seminatore dice che la Parola di Dio è stata seminata anche su terreni rocciosi, quindi chiusa, e solo sul terreno buono… Il terreno buono è quello della solidarietà, dei sentimenti di compassione, del patire con, del condividere, della misericordia. È una sfida molto forte che va riportata nelle parrocchie, nelle comunità, nei movimenti, anche perché è una grande opportunità che papa Francesco ci dà, perché sta interrogando molti. Abbiamo appena ricordato la straordinaria apertura dei viaggi pontifici a Lampedusa, con la meditazione di Francesco: «Lasciateci piangere». Salvare una persona è una realtà normale che va fatta, un patrimonio di tutti. Ma la stessa carica ci porta a contrastare totalmente il fenomeno dello scafismo e dei criminali. È una solidarietà che genera coesione sociale e legalità, altrimenti il nostro Paese sarà lacerato, nel quale apparentemente si parla di sicurezza e dove tutto diventa un problema di ordine pubblico. Così è un Paese ossessionato e triste, carico di muri invece che di ponti, dove non si respirano i sentimenti di tenerezza che danno il gusto della felicità».

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