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Sirio 30  settembre - 06 ottobre 2024
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Milano

«Ci sentiamo un popolo solo, che nel Myanmar e in Milano soffre, spera, prega»

In Duomo, è stata celebrata, con l’Arcivescovo, la preghiera interreligiosa per il Paese oggi segnato dalle violenze derivanti dal colpo di Stato del 1 febbraio scorso. Presenti anche 6 monaci buddhisti

di Annamaria Braccini

29 Maggio 2021

Due popoli lontani nello spazio – anche se legati dalla storia e da figure di alto profilo spirituale -, uniti per dire basta alla violenza, alla sopraffazione di un colpo di Stato che ha generato lutti, angoscia, dolore.

Milano prega per il Myanmar e lo fa nella “casa di tutti i milanesi e gli ambrosiani”, il Duomo che, così, si tinge di mascherine rosse – il colore caratteristico del Paese oggi martire -, di preghiere, invocazioni, di canti intonati dal coro di suore birmane, di pensieri. Quelli a cui dà voce la presidente dell’Associazione Birmani in Italia, Thuzar Linn, in apertura dell’incontro interreligioso al quale partecipa l’Arcivescovo.

«A causa del colpo di Stato del 1 febbraio 2021, oggi ci ritroviamo insieme per pregare i caduti del Myanmar e per la sofferenza del mio popolo», spiega Linn che ricorda la repressione e le violenze odierne, ma anche apostoli dell’evangelizzazione nel suo Paese, come il beato padre Clemente Vismara, alcuni martiri beati e la forza di testimonianze come quella di Ann Nu Thawng delle Suore Missionarie di San Francesco Saverio. La religiosa che ha implorato «in ginocchio gli agenti di polizia di non sparare sui manifestanti ponendosi a protezione dei giovani», dicendo, “Uccidete me, non la gente”. Immagini e parole che hanno fatto il giro del mondo e che danno il titolo alla celebrazione in Cattedrale. «A nome della Comunità birmana in Italia, composta da varie vocazioni religiose, avvertiamo ancora la necessità di unirci e stringerci per mano con la preghiera, per manifestare insieme la vera anima ed essenza delle nostre religioni. Raccogliamo i nostri pensieri e chiediamo aiuto, oggi, a schierarci con chiarezza dalla parte della giustizia. Preghiamo insieme per tutti coloro che possono rafforzare la pace con i loro pensieri e decisioni», conclude.

Al momento di preghiera – promosso dall’Arcidiocesi, dalla Comunità Birmana in Italia e dal Pime-il Pontificio Istituto Missioni Estere – intervengono anche 6 monaci buddhisti di Genova, Lerici, Milano, religiose cattoliche di 3 Istituti presenti sia in Diocesi sia nel Paese asiatico: le Suore della Riparazione, di Maria Bambina e, appunto, le consorelle della coraggiosa suora di San Francesco Saverio.

«Di fronte alla spirale di violenza che non risparmia nemmeno le chiese, i cristiani reagiscono con la forza della preghiera, della solidarietà e della testimonianza e accolgono come graditi ospiti una comunità di monaci buddhisti», spiega il vicario episcopale di Settore, monsignor Luca Bressan. «Con l’Arcivescovo tutti preghiamo perché dal cuore di ogni uomo siano bandite le parole “divisione”, “odio”, “guerra”, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre “fratello” e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam».

Una situazione, quella della Birmania, che viene illustrata da padre Gianni Criveller del Pime. «833 inermi, in gran parte giovanissimi e persino 50 bambini, sono state uccisi; 1550 persone sono state arrestate e 2000 si nascondono. Video e fotografie terribili testimoniano questi e altri crimini. Siamo precipitati ai tempi del colpo di Stato del 1962. Oggi molti giovani fanno testamento e sono disposti a morire per la libertà, come la giovanissima 19enne Kyal Sin, ormai definita “l’angelo”. Il Myanmar è una terra di fede buddhista. Oggi i cattolici sono accanto ai monaci, impegnati pacificamente per la libertà. I cristiani e i buddhisti sono in strada non con le armi, ma con i rosari e i pâdmé» .

L’intervento dell’Arcivescovo

Da una domanda si avvia la riflessione dell’Arcivescovo. «Il popolo esprime la sua protesta, desidera la sua libertà, migliaia di persone rivendicano la loro dignità e noi cosa diciamo? Noi non siamo politici e non vogliamo decidere le sorti del popolo, non siamo militari che contrastano le armi con le armi, non siamo ricchi che possono comprare la complicità, noi non siamo vicini per correre in soccorso. Noi cosa facciamo? Noi preghiamo. I discepoli di Gesù imparano a pregare da Gesù, pregano non come coloro che hanno perso fiducia in se stessi e nell’umanità. La preghiera dei discepoli non è l’esito dello scoraggiamento, perché pregano non come coloro che amano stare tranquilli, preferiscono evitare fastidi e stanno lontano dai pericoli, ma d’altra parte non vogliono sembrare indifferenti. I discepoli pregano per diventare come Gesù, per aprire il cuore, la mente allo Spirito di Dio».

«Noi ci sentiamo in comunione con il popolo birmano, uniti per la pace e la giustizia», scandisce l’Arcivescovo, «perché siamo uomini e donne di pace» come coloro che «si mettono di mezzo tra chi vuole uccidere e chi teme di essere ucciso».

«Stanno là in mezzo, i figli di Dio, con il cuore che trema, con lo strazio nell’animo e sperimentano l’inaudita e imprevedibile opera di Dio: sono felici, sono beati, là dove angoscia e spavento non vengono meno. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Persone che «pregano per la giustizia e, perciò, la preghiera li rende forti di fronte all’ingiustizia, anche quando la violenza li abbatte; perciò si fanno avanti per chiamare male il male e bene il bene. La loro voce è fatta di sapienza e di fortezza, il loro messaggio è scritto nelle opere più che con le parole, talora, con il sangue più che con la proclamazione dei principi. Là dove l’ingiustizia, la menzogna, la prevaricazione sembrano invincibili, loro sperimentano l’inaudita e imprevedibile opera di Dio: sono felici. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Pregano i discepoli perché i nemici si riconoscano fratelli e sorelle e la preghiera li rende misericordiosi e capaci di suscitare misericordia. Guardano negli occhi coloro che operano la violenza e con il loro sguardo, il loro sorriso e le loro lacrime forse svegliano anche il violento a riconoscersi uomo, fratello. Chiamano “fratello” anche chi vuole essere nemico, mercenario per opprimere, invasore per conquistare. Non rispondono al male con il male, pregano anche per i nemici perché ricevano il dono di un cuore nuovo. Così preghiamo, noi discepoli di Gesù: portiamo i nostri sentimenti feriti, i nostri pensieri confusi, i nostri cuori spaventati, l’angoscia per le persone care esposte al pericolo. Sentiamo vicino questo Paese che sembra lontano: molte sorelle e fratelli consacrati al Signore hanno costruito storie comuni, hanno dedicato tempo e fatiche in nome del Vangelo e hanno costruito il ponte della fraternità per cui ci sentiamo un popolo solo, che là e in Milano soffre, spera, prega e sperimenta l’inaudita e imprevedibile opera di Dio che vuole la gioia per tutti i suoi figli».

Poi, la preghiera di intercessione per il popolo birmano e la recita da parte dell’Arcivescovo della preghiera per la Pace, scritta da papa Francesco nel 2014, con ancora negli occhi la preoccupazione recentemente espressa dal Santo Padre ben 6 volte a proposito del popolo birmano e la Celebrazione presieduta, lo scorso 16 maggio nella Basilica di San Pietro, per la comunità dei fedeli del Myanmar residenti in Italia.

Infine, il canto del “Mettā Sutta” intonato, nella lingua Pali del canone buddhista, dai 6 monaci in altare maggiore del Duomo, con le parole del Buddha su tema dell’amore universale.

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