«Un clima sereno e consapevole del ruolo che ormai le comunità islamiche sanno di avere nel contesto della città di Milano». È questa l’impressione che monsignor Luca Bressan, vicario episcopale e presidente della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo della Diocesi, ha riportato dalle due visite (con annessa cena) compiute nei giorni scorsi per consegnare personalmente il messaggio augurale dell’Arcivescovo per la conclusione del mese sacro del Ramadan (leggi qui). Messaggio che, nella sua traduzione in arabo, è stato inviato a tutte le realtà islamiche presenti nel nostro territorio
Insomma, un bel clima?
Sì, indubbiamente. Soprattutto vorrei sottolineare il senso di presa di coscienza, da parte delle comunità, della necessità di vivere la preghiera e di trasmettere la fede. C’è bisogno che i credenti islamici testimonino la fede con una vita coerente con i loro principi, molti dei quali condividiamo, proprio per favorire lo sviluppo morale di Milano e la sua crescita. È importante, a tale proposito, quello che scrive l’Arcivescovo nel suo messaggio, ossia che dobbiamo essere uniti, mostrando il primato di Dio nelle nostre vite, e come questo stesso primato sia essenziale per permettere alla città di ricercare il bene comune di cui ha bisogno.
Quali comunità ha visitato?
Sono stato alla moschea di via Meda della Coreis, e poi in via Padova 44, in ambienti per certi aspetti molto diversi tra loro e, per altri, simili. Il contesto della Coreis ha una presenza tradizionale di musulmani italiani con una volontà di riflettere insieme, quindi di persone integrate, tanto che nella sera in cui ho partecipato alla cena erano invitati anche altri musulmani, giunti da diverse città della Lombardia. Nel Centro di cultura islamica di via Padova, oltre a un bel clima spirituale, ho sentito anche una giusta trepidazione, essendo loro da anni in attesa di un luogo di culto che sia davvero dignitoso e all’altezza dei bisogni che vivono. Allo stesso tempo, si tratta di una comunità giovane, con provenienze dal Medio Oriente, e dunque preoccupata per la situazione che si vive in quelle terre.
Cenare insieme – lo si è ben capito con il Festival di Spiritualità SOUL – non è unicamente consumare cibo, ma significa anche condivisione umana. Che tipo di argomenti avete toccato nei due appuntamenti?
La convivialità della cena permette che si crei un clima d’intimità e che si trattino vari temi, dalle questioni internazionali – ho ascoltato descrivere la situazione che si vive a Gaza dalla viva voce di chi ha parenti laggiù – a vicende quotidiane e molto belle. Per esempio il responsabile del Centro di via Padova Mahmoud Asfa è nonno, e mi ha spiegato cosa voglia dire crescere i nipotini a Milano. Naturalmente abbiamo parlato anche di argomenti di interesse generale, condividendo la speranza che si arrivi a poter usufruire, come dicevo, di una moschea. Da questo punto di vista, ho sentito da loro osservazioni molto simili a quelle delle Chiese cristiane che si stanno radicando a Milano, come quella Copta. Avere un luogo di culto permette di guardare al futuro e, per rimanere nella metafora familiare, offre a questi piccoli nipoti di crescere nella loro fede religiosa, anziché di non averne nessuna. Questo significa poter imparare, fin da giovani, a conoscersi, mettendo a confronto le diverse fedi, riconoscendo le differenze, ma soprattutto i valori condivisi e la possibilità del dialogo reciproco.
I giovani hanno partecipato a questi momenti di confronto?
Il dialogo avviene soprattutto con i responsabili delle Comunità, ma prima d’iniziare la cena c’è la lettura del messaggio dell’Arcivescovo e un breve scambio di saluto. È lì che s’incontrano i giovani, che sono come i nostri, anche se certamente più in ansia perché si fanno domande sul loro futuro, chiedendosi come sarà Milano tra vent’anni, quale sarà il loro ruolo e come si potrà crescere insieme.




