«Medioriente: oggi e domani?». Nel titolo della serata che l’Assemblea sinodale decanale del Decanato Città Studi-Lambrate-Venezia ha promosso presso la Sala Gregorianum di Milano c’è tutto un futuro dai profili incerti per la Terra Santa. A definire il senso delle tante domande che continuano a riproporsi, seppure in un momento di rinascita delle speranze di pace, tre conoscitori assoluti della realtà mediorientale collegati da remoto: il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini; monsignor Paolo Martinelli, già vescovo ausiliare a Milano e attualmente vicario apostolico per l’Arabia meridionale; monsignor Mounir Khairallah, vescovo libanese maronita di Batroun.
La serata
«Come Giunta dell’Assemblea sinodale decanale, vogliamo far sentire non la voce dei giornalisti, ma della Chiesa che è in quei luoghi», spiega subito don Gianluigi Panzeri, parroco della Basilica dei Santi Martiri Nereo e Achilleo e decano, che legge il Messaggio dei Vescovi lombardi in partenza per il loro pellegrinaggio in Terra Santa che si svolgerà dal 27 al 30 ottobre. Accanto a lui Claudia Di Filippo, moderatrice dell’Asd, e don Paolo Zago, che pone le domande ai relatori e che, in agosto, con i fedeli della sua Comunità pastorale Madonna dell’Aiuto di Gorgonzola, è andato in Terra Santa dimostrando come sia possibile farlo senza particolari rischi. È lui che osserva: «Questo non è un incontro politico, ma per dire come stare da cristiani in questo conflitto».
Proprio su tale interrogativo è posta una prima domanda al Patriarca, la cui Diocesi copre 4 Paesi – Israele, Giordania, Palestina e Cipro -, con una popolazione di 250 mila persone in maggioranza di lingua araba, ma che parlano anche ebraico e con una percentuale di lavoratori stranieri.

La visione cristiana del conflitto
«I cristiani non sono un partito politico – sottolinea il Porporato -. Anche se è vero che tutti crediamo in Gesù Cristo, non è detto che tutti abbiano la stessa visione. Abbiamo per esempio cristiani che militano nell’esercito israeliano e altri tra gli arabi. Ci accomuna la fatica di stare dentro un conflitto dove tutto tende a dividerci. Credo che vi sia un desiderio di riconciliarci che, in questi ultimi mesi, è più evidente. Ciò che è generato con la violenza, finirà di morire di violenza».
Da parte sua il vescovo Mounir, collegato da Roma per il Giubileo delle Équipes sinodali, spiega: «Il Libano conta 18 diverse etnie sul suo territorio e per questo Giovanni Paolo II diceva che siamo un “Paese-messaggio”. Nonostante 50 anni di guerra, noi libanesi non abbiamo mai perso la speranza. In Libano abbiamo e vogliamo continuare a provare a vivere insieme, costruendo la pace. Non è facile e lo capiamo, ma quando superiamo la psicosi della paura, possiamo comprenderci reciprocamente, sapendo perdonare. Quest’ultima è la grande sfida per i cristiani. Io, grazie alla fede in cui sono stato educato e alla Chiesa, ho imparato a perdonare, pur dopo aver visto uccidere davanti a me i miei genitori. Con un dialogo vero e sincero possiamo riuscirci. Diciamo insieme – cristiani, ebrei, musulmani – ai politici che, come le Nazioni Unite hanno riconosciuto, a suo tempo, lo Stato di Israele, bisogna riconoscere i due Stati. Così avremmo tutti la pace».

Ricorda il vescovo Martinelli, vicario degli Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman, anch’egli collegato da Roma: «Alla fine di giugno del 2022 sono andato nella mia chiesa in Abu Dhabi per celebrare la Messa ed era pienissima in un giorno feriale. Negli Emirati Arabi Uniti abbiamo più di un milione di cattolici, con un numero imprecisato nello Yemen per la guerra in corso. I nostri fedeli sono migranti di più di 100 cittadinanze e, quindi, dobbiamo imparare a vivere insieme, provenendo da Paesi diversi. I più numerosi sono i filippini, ma ci sono anche tanti indiani, libanesi e sudamericani. Per questo papa Francesco, nel 2019, parlò della regione come di una “gioiosa polifonia della fede”».
«La nostra – prosegue – è una posizione particolare, perché, per la grande maggior parte del territorio, non siamo coinvolti nel conflitto (anche se lo Yemen del nord si è schierato con Hamas), ma sentiamo sulla nostra pelle questa guerra. Non sta a noi prendere posizione, ma dobbiamo, da cristiani, non abituarci mai al massacro percorrendo percorsi della riconciliazione: dobbiamo chiamare il male con il suo nome, riconoscendo l’aspetto negativo della violenza, ma accompagnando tutti nella preghiera. Una preghiera che chiede a Dio l’aiuto perché tocchi il cuore dell’uomo con un perdono che fa rinascere la vita e mette in moto il tempo. Noi possiamo essere un segno di pace di fronte al mondo, pur essendo diversi. Questo dico alla mia gente: la pace deve essere testimoniata a partire dalle relazioni».

Cosa ci unisce: la realtà e l’ideale
Poi un secondo giro di domande sul ruolo dell’Occidente e la diffusione del sentimento antiebraico. «Bisogna fare i conti con la realtà – chiarisce Pizzaballa -, con il desiderio dei palestinesi di essere un popolo – un diritto sacrosanto – e, in questo senso, la soluzione dei due Stati è l’ideale. Ma nel reale questo non è possibile, perché Israele non lo vuole, e anche l’interlocutore palestinese non è chiaro. Sarà possibile, stando così le cose, ma non sarà facile. La religione che dovrebbe essere una risposta è diventata un problema», ammette.
«La religione non può predicare la violenza e può solo attivare la riconciliazione, ma sappiamo che può essere usata dai fondamentalisti – riconosce il Vescovo maronita -. Tuttavia sono convinto che ebrei, cristiani e musulmani, che hanno lo stesso Dio, possono vivere insieme. La realtà, come dice il Patriarca è diversa dall’ideale, ma questo non ci dispensa dal portare la nostra umanità, fino alla croce, nella terra di Cristo. Non contano i numeri – anche se è vero che i cristiani in Medioriente soffrono di una diaspora e di un’emorragia di presenze -, ma conta che siamo un lievito, un “sale” in questo momento. Noi non ci rassegniamo: vogliamo dire ai nostri fratelli ebrei e musulmani che le nostre religioni ci uniscono nel difendere tutta l’umanità e nel vivere di rispetto».
Chiosa il Vicario apostolico, che fa riferimento alla Abrahamic Family House di Abu Dhabi (un complesso interreligioso che ospita una sinagoga, una chiesa e una moschea): «Per l’esperienza che ho avuto e che sto facendo adesso, dico che è possibile superare le rigidità e non lo pensavo possibile. Abbiamo in comune l’umano, il senso degli affetti e del lavoro, l’idea che la vita sia tenuta insieme da Dio. Nel riconoscimento dell’umanità che lui ci ha donato, magari vivendo percorsi di amicizia e partecipando alle feste religiose l’uno dell’altro, è possibile il dialogo».

Il rapporto con il mondo ebraico
Più complessa e articolata la questione che intreccia sentimenti antiebraici e antisemitismo «Chiariamo subito che le tensioni sono state con il mondo istituzionale israeliano. Il 7 ottobre resta uno spartiacque, ma non è, come dicevo all’inizio del conflitto, un punto di svolta del dialogo – nota con estremo, e purtroppo doloroso, realismo Pizzaballa -. Il dialogo cristiano-ebraico, anzi, cattolico-ebraico è sempre stato di élite e non hai mai toccato ambiti difficili, come lo Stato di Israele che per noi è uno come tutti gli altri, mentre per gli ebrei è qualcosa di identitario. E mai abbiamo parlato, a livello istituzionale, del rapporto degli ebrei con la terra. Nel Deuteronomio e anche nel libro di Giosuè è scritto: “Dio ci ha dato la terra”, mentre noi abbiamo spiritualizzato le Scritture. Ci basiamo sulla stessa Bibbia, ma la lettura che ne diamo non è identica. Tutto questo oggi è emerso e dobbiamo parare il colpo. Abbiamo lasciato tutto agli estremisti, e spesso le nostre affermazioni sono molto generiche e non si calano nella vita reale: per questo non rappresentiamo un’alternativa ai coloni estremisti o ad Hamas. Certo, è molto difficile tenere insieme Gesù e il potere, ma non dobbiamo essere naïf. Il cristianesimo è nato a Gerusalemme, ma qui è sempre stato minoritario e credo che sia un disegno della provvidenza perché deve essere libero dal potere. Siamo chiamati, in questo momento, non a restaurare la cristianità in Medioriente, ma a tenere viva la testimonianza cristiana e l’appartenenza a Cristo».

L’appello
Infine, l’appello dei tre religiosi.
Martinelli: «Non si parla da neutri, ma tra persone che si incontrano. Pensiamo alle suore di madre Teresa di Calcutta, colpite da due attacchi, in Yemen settentrionale ad Aden, dove sono stati uccisi musulmani e religiose che si impegnavano insieme per aiutare i poveri tra i più poveri. Occorre lavorare sull’umano perché sia più umano».
Mounir: «Fratelli, liberatevi dalla paura dell’altro, e testimoniamo tutti insieme i valori cristiani. È questo che oggi conta di più nella vita quotidiana».
Pizzaballa: «È tempo di smettere di parlare di Terra Santa, ma di venire qui, non solo perché ci volete bene, ma perché volete abbracciarci concretamente».




