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Milano

Carcere minorile, quella speranza che fa scegliere il bene ed evitare il male

Al Teatro PuntoZero dell'Istituto Beccaria l'Arcivescovo è intervenuto al convegno «Pensare i giovani: dai bisogni ai progetti»: nel percorso della vita «educare alla responsabilità è una fondamentale opera educativa»

di Annamaria Braccini

6 Giugno 2019

Si può parlare ai giovani che vivono il carcere minorile – spesso una vergogna e uno stigma che segnano la loro intera vita – di una terra promessa e di un futuro desiderabile? Si può e anzi è doveroso farlo, indicando, come adulti, esempi e una speranza affidabile, che ovviamente non è quella dei modelli, spesso falsi, proposti dai social o dalle mode del momento. Lo dice l’Arcivescovo in un luogo-simbolo come il Teatro PuntoZero dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria”, dove si svolge una mattinata di confronto promossa dal Tribunale e dalla Procura per i Minorenni di Milano. «Pensare ai giovani: dai bisogni ai progetti» il titolo dell’incontro, nel quale l’Arcivescovo dialoga con Maria Casola, magistrato del Dipartimento per gli Affari di Giustizia – in rappresentanza del ministro Alfonso Bonafede –  sul tema «Il dovere di pensare per il futuro. Il diritto di avere un futuro». Presenti, tra gli altri, il prefetto Mario Saccone, il questore Sergio Bracco e Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, i cappellani don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, rappresentanti del Corpo di Polizia penitenziaria. Spunto dell’iniziativa, il Discorso alla Città del 2018, «Autorizzati a pensare».

Proprio sul concetto di “futuro” e su come «permettere ai cuccioli di uomo di camminare verso di esso» si incentra la riflessione del Vescovo, che segue gli interventi introduttivi della direttrice del “Beccaria” Cosima Buccoliero, di Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale dei Minori, e di Ciro Cascone, procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni.

No al determinismo

«Il cristiano non pensa la storia come determinismo di un destino che considera le persone e la società oggetto di un fatalismo che ne predetermina le sorti: “Se nasci in quel quartiere, se nasci in una famiglia così, se hai questo tratto genetico, intellettuale, economico, allora senz’altro sarai così…”. Non possiamo immaginare, infatti, una vicenda umana come un determinismo fatto di ottimismo superficiale o di pessimismo scoraggiato. Noi non consideriamo i numeri o le statistiche, ma le persone e pensiamo che sia sempre possibile una scelta», chiarisce subito l’Arcivescovo con una premessa da cui nasce quello che chiama «un secondo pensiero»: «Il nome del futuro non è quello che deriva dall’essere spinti alle spalle, magari dai genitori, con esperienze comandate che conducono al disamore per la vita, a uno stallo nell’esistenza. Il futuro si chiama, invece, legittimamente “terra promessa” che fa nascere una speranza. Anche per scegliere il bene ed evitare il male, occorre che vi sia qualcuno che offre una promessa affidabile e nutre una speranza altrettanto affidabile».

La vita come pellegrinaggio

Chiaro il riferimento alla responsabilità. «Il clima lamentoso e deprimente che spesso circola tra gli adulti – più inclini alla critica che alla proposta -, non predispone i giovani a desiderare di diventare, a loro volta, adulti. Non si tratta di presentare modelli virtuali o ingannevoli – a questo ci pensano già i social -, ma di indicare che non c’è una storia già scritta. Se il nome del futuro è terra promessa, dove è possibile la gioia e la condivisione, il nome della vita è pellegrinaggio». Un cammino, per la visione cristiana, intuito in senso escatologico e vòlto al paradiso, ma che è convincente comunque per tutti, appunto perché «non proponiamo una favola, ma una speranza più grande dei modelli politici o del benessere che si può costruire sulla terra».

«Gli adulti devono ritrovare la fierezza del rendere abitabile il mondo: si tratta di trafficare i talenti». Come a dire: anche chi ha subìto violenza e l’ingiustizia o l’ha perpetrate, «deve essere aiutato ad avere stima di sé e a non vivere come destinatario solo di diritti che sono pretese. Educare alla responsabilità è una fondamentale opera educativa. Il giovane deve percepire che l’interlocutore si aspetta da lui qualcosa di buono, vuole tirare fuori quel tesoro che è dentro ciascuno e non lo fa per elemosina. Occorre ribadire la nozione cristiana di vita come vocazione, come chiamata alla felicità e alla libertà che non è un incrocio tra mille strade o un libero arbitrio senza punti di riferimento, ma è rispondere al pellegrinaggio della vita dove si possono mettere a frutto i propri talenti».

Costruire percorsi

Un pellegrinaggio che è, quindi, anche consapevolezza di un percorso evolutivo in cui esercitare le proprie capacità. «Su questo bisogna fare alleanza per convergere sul bene comune. Essere qui può dare una storia concreta a tale alleanza», conclude l’Arcivescovo, con cui concorda a pieno Casola che cita il Sinodo dei Giovani e l’Esortazione post-sinodale di papa Francesco Christus vivit, indicando la giovinezza come luogo teologico: «Per questi ragazzi, la famiglia come cellula primaria, il ruolo degli enti locali, dei servizi sociali e del prezioso volontariato, sono cruciali nell’aiuto e nella risoluzione delle situazioni di disagio».

Così anche per la direttrice Buccoliero, «si tratta di avere nuovi modelli per comprendere le dinamiche giovanili che si evolvono molto velocemente, specie nei fenomeni di emulazione, con comportamenti senza regole. Entrare in carcere è un momento traumatico per tutti e lo è ancora di più per i giovani che devono sentirsi accolti nelle fondamentali relazioni che si instaurano con gli educatori, i coetanei, la scuola. Soprattutto il carcere deve avere un occhio verso l’esterno, deve contaminarsi, accettando il rischio di giocarsi per il reinserimento dei ragazzi. Si devono costruire percorsi con i giovani e non su di loro».

Non a caso il convegno si svolge in un teatro, definito «luogo progettuale di una dinamica tra “dentro” e “fuori”, dove si realizzano scambi di esperienze tra giovani detenuti e società civile nel confronto con persone che possono aprire loro spiragli culturali».