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Milano

Delpini: «I poveri e i deboli stremati nel prolungarsi dei procedimenti patiscono pene ingiuste»

L’intervento dell'Arcivescovo al Palazzo di Giustizia nell’incontro promosso dall’Unione dei giuristi cattolici, alla presenza di magistrati, avvocati e personale dell’amministrazione giudiziaria. Ai credenti impegnati in questo ambito l'invito a essere coraggiosi artefici del cambiamento: «Qualcosa va riformato e questo può essere il vostro contributo alla società»

di Annamaria BRACCINI

12 Dicembre 2023
(foto Agenzia Fotogramma)

Gesù che è giudice e avvocato ma che, soprattutto, incontra nel palazzo di giustizia coloro che attendono da troppo tempo quello che è giusto, quello che è diritto del cittadino. «Ci sono coloro per i quali il prolungarsi dei procedimenti è un vantaggio perché sono in posizione di forza e forse contano su norme che prescrivono alcuni reati. Ma ci sono poveri e deboli che nel prolungarsi dei procedimenti sono stremati e patiscono pene che sono ingiuste».

È la vita del Signore, la sua figura pubblica, una “parabola” immaginaria, ma basata sul Vangelo,  ad annodare, come un filo d’oro prezioso e umanissimo, l’intervento che l’Arcivescovo Mario Delpini pronuncia nella storica Aula della Corte di Assise d’Appello del Palazzo di Giustizia di Milano, nell’incontro promosso dall’Unione dei Giuristi Cattolici. Presenti magistrati, avvocati, personale dell’amministrazione della giustizia cittadina, il moderator Curiae monsignor Carlo Azzimonti (anche lui avvocato) e il responsabile dell’Avvocatura della Diocesi, don Michele Porcelluzzi.

Sotto lo storico mosaico di Mario Sironi e con a lato le sbarre bianche della triplice gabbia resa famosa da tante immagini televisive, accanto al vescovo Mario siedono Giuseppe Ondei, presidente della Corte d’Appello, Francesca Nanni, procuratore generale e Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

L’intervento dell’Arcivescovo

Si parte dal vangelo di Marco, «quando Gesù si avvicinò al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!” e Gesù rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”. Gli operatori del tribunale sono chiamati a una riflessione sistemica che riguarda tutto il sistema giudiziario e l’attività processuale: molte voci dicono della necessità di una riforma. Non ho competenza su questo, ma il coraggio di una proposta è forse un dovere indeclinabile del pensiero, del magistero, dello studio dei cattolici impegnati in questo ambito. Il fatto che non rimarrà pietra su pietra non vuol dire che tutto debba essere distrutto, ma che qualcosa va riformato e questo può essere il vostro contributo alla società», spiega l’Arcivescovo, facendo riferimento anche alla parabola delle cinque vergini stolte e altrettante sagge che si attrezzano con l’olio per mantenere accese le lampade.

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«Nel palazzo di giustizia c’è del personale – giudici, avvocati, segretari, addetti diversi compiti – stremato dalla fatica, schiacciato dall’incombere di un peso sproporzionato alle forze. Le persone sagge si attrezzano con olio di riserva. Cercano modi di organizzare la loro vita che consenta riposo, ricarico di energia, occasione di approfondimento e di aggiornamento. La formazione professionale non è solo aggiornamento, ma ricarica motivazionale e costanza in una dinamica di solidarietà che propizia forme di collaborazione e di alleanza». Un tema, questo dell’organizzare i tempi e le incombenze, ma anche il tempo del riposo, particolarmente caro a monsignor Delpini, già proposto in un incontro in tribunale dell’ottobre 2022.

Si prosegue con Gesù che entrando nel Palazzo di Giustizia incontra «la vedova insistente che può essere considerata, forse, come la voce di tutti coloro che sono stremati dall’eccessiva durata dei procedimenti. Quando Gesù entrò nel Palazzo di Giustizia forse ha ripetuto il gesto compiuto nel tempio di Gerusalemme, scacciando quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio. Forse anche oggi nel palazzo abitano persone che comprano e vendono, fanno i loro affari e non si curano del bene comune, del sacro dovere di rendere giustizia».

Milano, Corte Assise d’Appello. La visita di mons. Mario Delpini a Palazzo di Giustizia (foto Agenzia Fotogramma)

E, ancora, Gesù e Paolo che ebbe pene per quello che chiameremmo un reato di opinione. «Il rischio che l’ideologia insidi le sentenze è continuamente presente in tanti Stati del mondo e vorremmo che fosse per sempre escluso», scandisce il vescovo Mario che non si nasconde la questione scottante della pena.

La pena e la cura del bene comune

«Non si può dimenticare il tema delle pene – spiega l’Arcivescovo – che non si identifica solo nella condanna. Il carcere ci deve fare pensare anche perché le condizioni delle nostre realtà penitenziarie fanno dubitare che possano essere rieducative. Nella visione cristiana, la libertà è un bene irrinunciabile e si tratta di orientare al bene invece che al male. Gesù ha avuto una esperienza drammatica dei tribunali: del sinedrio e del pretorio. L’innocente è stato condannato, il giusto è stato ingiustamente messo a morte e anche il suo rapporto con il potere è problematico, in cui egli è stato vittima più che giudice. Il Verbo si è fatto carne per farsi carico di tutti gli aspetti della vita umana e per salvare tutti gli uomini e le donne e l’intero dell’essere umano, perciò Gesù si chiama anche giudice, come un invito a procedere nel giudizio con l’idea del bene comune e della persona che è promettente come ispirazione a una giustizia che non sia meccanica applicazione di una lettera che uccide, ma interpretazione di uno spirito della legge diverso. Ed è anche avvocato con il suo servizio di intercessione a cui si possono ispirare gli avvocati per dire che si può guardare con uno sguardo di rispetto a coloro che sono colpevoli che possono essere guariti».

Gli interventi istituzionali

Parole che paiono come una risposta agli interventi introduttivi dell’incontro, di cui il primo affidato al presidente Ondei che porge il saluto di benvenuto a nome di tutti i magistrati, avvocati e personale che operano a Palazzo di Giustizia e richiama l’espressione che campeggia sul fronte del tribunale, “Fiat iustitia ne pereat mundus”. Una frase mutuata da quella dei congiurati che uccisero Cesare, “Fiat iustitia et pereat mundus” e fatta propria dal filosofo Immanuel Kant come sintesi di una giustizia corretta, irreversibile, basata su una visione inderogabile e intransigente del diritto. Nell’espressione, invece, scelta ai tempi della costruzione del palazzo milanese, si dice “Sia fatta giustizia affinché il mondo non vada in rovina”. «Qui – nota Ondei – si ha una concezione della giustizia tollerante degli errori, della possibilità di fare ammenda con una giustizia favorevole e proporzionata che sappia tutelare i diversi interessi coinvolti. Sono due concezioni diverse e la seconda frase definisce un chiaro orientamento nel modo di esercitare la giustizia in modo funzionale ai valori e alle esigenze della società, centrato sulla valorizzazione della persona umana. Anche perché, talvolta, la giustizia è il mondo privilegiato e l’unico per dare voce a gruppi minoritari. Il magistrato non deve rimanere chiuso nelle sue stanze, ma andare incontro alle persone, calandosi nel contesto sociale e considerando tutti i fattori della realtà. Il giudice non deve essere figura asettica e priva di identità, ma compiere uno sforzo di comprensione dei fenomeni sociali». Ovvio, in un simile orizzonte, l’importanza del messaggio cristiano «che può portare un contributo rilevante nel valorizzare le identità. Infatti, la fede, non offre contenuto nuovo e specifico al diritto, ma lo ordina e lo dota di senso. La carità permette al giudice di dilatare il concetto di “suum”, nel senso di rendere a ciascuno il suo, volendo che ognuno sia sé stesso, con una maggiore comprensione giuridica e della realtà», conclude Ondei.

(foto Agenzia Fotogramma)

Francesca Nanni, procuratore generale, parte dalla nozione della giustizia riparativa.  Chiedendosi se sia possibile, e la risposta è sì, un rapporto, un dialogo tra cristianesimo e giustizia penale, ognuno con le proprie identità. «La Chiesa deve continuare a testimoniare i valori di cui si fa portatrice e la giustizia penale, senza presunzione e arroganza, deve ricostruire una versione oggettiva dei fatti ispirata al buon senso. Da questo incontro nasce un indirizzo, un circolo virtuoso che orienta la società verso un concetto di giustizia più positiva e propositiva. Un’operazione, questa difficile, ma sicuramente nobile. Purtroppo le reazioni inconsulte e violente attraverso i social ci testimoniano un demoralizzante non comprensione di tali dinamiche, ma è documentato chiaramente che nel momento in cui la persona partecipa in modo attivo alla sua pena, le recidive diminuiscono ed e più facile il reinserimento».

Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano osserva citando la Deus Caritas Est, enciclica di Benedetto XVI. «Non è un compito semplice quello di chi difende i diritti. Un sistema sociopolitico che non confida nella giustizia, non può essere tale. Difendere gli altri, comprendendone le più ultime lacerazioni, ci rende il senso più profondo del nostro compito dentro e fuori da questo palazzo. Siamo difensori e dobbiamo tenere ferma questa visione capace di andare oltre. La tutela dei diritti deve respirare in spazi ampi e bisogna dirlo con coraggio: la giustizia non si misura, non si pesa, si realizza come ultimo baluardo. In un contesto di postdemocrazia, dove le persone ancora muoiono nelle carceri e la frontiera dei diritti pare arretrare, la giustizia, accanto al concetto di libertà, deve essere sostenuta dal valore della solidarietà. L’intimo contatto tra solidarietà e diritti inviolabili indica anche quello tra giustizia e fede che parte dall’uomo e torna all’uomo. Così si arriva a una mutua responsabilità, con un modello di giustizia in un contesto valoriale che garantisca i diritti, ma anche l’ispirazione a una vita vera nella comunità, con l’ideale più alto, la dignità della persona e delle persone.

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Le testimonianze

C’è spazio per sette brevi testimonianze di magistrati, avvocati, personale che parlano di difficoltà, ma anche di un tenace e generoso servizio, dell’attaccamento al lavoro, specie operando in contesti di grande sofferenza e fragilità. «Le sfide che dobbiamo affrontare paiono talvolta ai limiti del possibile, con una corsa stressante, da una parte, all’efficientismo e dall’altra, con un atteggiamento di pigrizia di chi reputa ingenua la speranza. Mai come in questi tempi i giuristi cattolici sono chiamati a difendere i diritti dei più deboli in un sistema che dice di includere le diversità, ma che, nei fatti, le esclude. Il ricordo è per il beato Rosario Livatino e un pensiero va ancora al ruolo dei credenti nel mondo giudiziario. Lo Stato deve stanziare risorse per un esercizio tempestivo, efficace e efficiente della giustizia. Ma perché la giustizia sia costruzione di pace sociale anche a livello internazionale, occorre chiamare in causa anche la responsabilità personale degli operatori a maggior ragione se si è credenti».

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