L’inclusione delle persone con disabilità non può essere ricordata solo il 3 dicembre: deve diventare uno stile quotidiano
Presidente della Consulta diocesana Comunità cristiana e disabilità – O tutti o nessuno

Ogni anno il 3 dicembre, la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità richiama l’attenzione della società sul valore dell’inclusione, sulla tutela dei diritti e sulla dignità delle persone con disabilità. È una giornata importante, che accende riflettori spesso troppo deboli. Ma, per essere onesti, non può e non deve essere l’unico momento in cui ci lasciamo interrogare.
La sensibilizzazione non può essere un appuntamento annuale: è un compito quotidiano, un cammino che chiede continuità, coerenza, conversione dello sguardo. Lo ricorda con forza la Consulta diocesana “Comunità cristiana e disabilità”, impegnata da anni a testimoniare che l’inclusione vera nasce solo quando la comunità cristiana sceglie di riflettere su sé stessa e sui propri modi di vivere, pregare, educare e celebrare.
Viviamo in una cultura dominata dal prestazionismo e dal perfezionismo, dove contano la produttività, l’efficienza, l’apparenza. È un clima che può insinuarsi anche nelle nostre comunità: programmi impeccabili, attività piene, ritmi serrati, obiettivi misurabili. Tutto valido, tutto utile. Ma a quale prezzo?
Il rischio è che chi non riesce a “stare al passo” venga lasciato indietro: persone fragili, con disabilità, con tempi più lenti, con bisogni specifici, con modalità diverse di comunicare o di partecipare. È allora che ci accorgiamo che non basta parlare di inclusione: bisogna scegliere di essere inclusivi, ripensando modalità e priorità.
C’è un paradosso grande e prezioso: sono spesso proprio le persone con disabilità ad aiutarci a vedere più chiaramente se siamo davvero una comunità accogliente.
La loro presenza rivela ciò che funziona e ciò che esclude. Mostra se siamo una Chiesa che fa spazio, che ascolta, che rispetta i tempi di ciascuno, oppure una comunità che proclama parole belle ma rischia di restare astratta, retorica, mentre nella pratica continua a privilegiare i più forti, i più veloci, i più “performanti”.
Le persone con disabilità non sono “oggetto” della nostra carità, ma soggetti che ci educano, che ci aiutano a scoprire la nostra verità comunitaria. Ci mostrano che tutti – nessuno escluso – hanno un contributo unico da offrire. Ci ricordano che l’essenziale non è l’efficienza, ma la relazione; non la performance, ma la comunione; non l’apparenza, ma la vicinanza.
Per questo la sensibilizzazione non può limitarsi a una giornata. Deve diventare uno stile, una scelta, una responsabilità condivisa. La comunità cristiana è chiamata a: mettersi in discussione, riconoscendo senza paura le proprie rigidità; trasformare le proprie prassi, perché siano realmente accessibili e inclusive; camminare insieme, facendo della fragilità un luogo di incontro e non di esclusione; valorizzare i doni di ciascuno, comprendendo che la differenza non è un ostacolo, ma una ricchezza.
Il 3 dicembre, allora, non è una semplice ricorrenza da segnare in calendario. È un campanello che ci ricorda ciò che dovrebbe abitare ogni giorno della nostra vita comunitaria: il desiderio di essere una Chiesa in cui tutti possono riconoscersi, partecipare, contribuire. Una Chiesa che non lascia indietro nessuno, perché solo camminando insieme può annunciare davvero il Vangelo dell’accoglienza e dell’amore.