L’attesa, anche solo di pochi minuti nel freddo della sera milanese, il cammino al buio, l’accoglienza in lingue che non si conoscono. E, tutto per provare, anche in minima parte, ciò che i rifugiati e i migranti sperimentano al loro arrivo in Italia e, comunque, più in generale, nei Paesi del cosiddetto nord civile del mondo.
È una scelta suggestiva e piena di significato, quella con cui, gli operatori e i volontari di “Casa Suraya”, nata nel 2014, all’origine per offrire accoglienza ai rifugiati siriani, hanno deciso di iniziare il quinto appuntamento della fortunata iniziativa, “L’Arcivescovo vi invita” che in sette lunedì fa uscire «i ragazzi dall’oratorio per incontrare altrettante realtà ed esperienze che ci parlano oggi delle opere di misericordia». Una proposta della Fondazione degli Oratori Milanesi, arrivata alla seconda edizione, e che, quest’anno in occasione del Giubileo, è incentrata sulle sette opere, appunto, di misericordia corporale. In questo caso, naturalmente, “Ero straniero e mi avete accolto”.
L’accoglienza
E così, quelle che passano sotto gli occhi del centinaio di ragazzi che partecipano e del vescovo Mario Delpini – che arriva nella struttura con il vicario episcopale di Settore, don Giuseppe Como, e il direttore della Fom, don Stefano Guidi – sono storie, insieme, di dolore e di riscatto. Come spiega la presidente della Cooperativa Farsi Prossimo di Caritas ambrosiana, che gestisce la struttura, Anna Maria Lodi che ha accanto il direttore di Caritas, Luciano Gualzetti. Accolti tutti dopo qualche minuto di attesa ai cancelli della Casa, da Assan (che in realtà è un educatore), Milad e Ruben, che esprimono il loro benvenuto in arabo, farsi e tigrino, proprio per far capire lo spaesamento che viene dal non comprendere ciò che viene detto.
Poi, la divisione in tre gruppi degli adolescenti che, accompagnati dai loro “don” ed educatori, provengono dagli oratori di Lainate, Pieve Emanuele, Golasecca e da “Santa Maria Nascente” del vicino quartiere milanese del QT8. Sono loro che – un gruppo vede anche la presenza dell’Arcivescovo – ascoltano in silenzio ad esempio, la vicenda di Nimit, arrivato dall’India 15 mesi fa, dopo un passaggio in Germania.
Le testimonianze
«Con il primo stipendio ha comprato un orologio a mio padre e una borsa alla mia mamma per ringraziare di cosa hanno fatto per me», narra con semplicità raccontando di aver frequentato un corso di cuoco, di lavorare adesso nella più famosa catena mondiale di fast food, e di aver ripreso gli studi alla scuola media. Senza dimenticare il “sogno nel cassetto”: «diventare direttore di un albergo in Italia».
Più drammatica la storia di Bernadette, 46 anni, ivoriana con anni di violenza domestica alle spalle, dal 2023 in Italia, dopo essere stata 5 anni in Tunisia. A casa, in Costa d’Avorio, sono rimasti i suoi cinque figli, a cui ora può mandare qualche risparmio, avendo trovato un lavoro in un albergo. Mentre ripercorre il suo calvario, simile a quello di migliaia di disperati del Terzo millennio – «ho avuto tanta paura, ho pregato Dio, pensavo sempre ai miei figli, ma ora qui sono tutti tanto buoni con me», dice commuovendosi -, Bernadette tiene in mano un indumento spiegazzato che le ricorda il viaggio e da cui non si separa mai: un’immagine difficile da dimenticare.

È la volta, infine, di Sara, operatrice di “Casa Suraya” che domanda ai ragazzi quali siano le parole che hanno pensato durante la visita. «Confusione, smarrimento, colori – so che ne avete visti tanti -, suoni?
Abbiamo fatto apposta a farvi attendere fuori al freddo, a farvi camminare al buio, ad accogliervi in una lingua che non conoscete, per provare a farvi capire una piccola parte di ciò che hanno sentito i nostri ospiti. Vi abbiamo sequestrato i cellulari all’ingresso come accade a chi arriva. Voi siete rimasti stupiti, ma per loro può essere un dramma, perché il cellulare è la custodia di ciò che hanno lasciato nel loro Paese e lo strumento per mantenere i contatti con la famiglia».
«Viaggiatori sono stati i nostri ospiti e speriamo che lo siate anche voi, per questo vi regaliamo una semplice etichetta per le valigie con una mappa del mondo e un piccolo pensiero», conclude Sara.
«“Casa Suraya” prende il nome da quello della prima bambina siriana nata qui – sottolinea, da parte sua, la presidente Lodi – ed è stata aperta a ottobre 2014, raccogliendo l’appello di papa Francesco, dopo la prima strage di siriani. Una fratellanza e sorellanza che ha accomunato noi e le circa 25mila persone passate di qui in un anno e mezzo con alcune delle quali siamo rimasti in contatto. Allora eravamo l’unica struttura che assisteva donne con bambini, oggi, con il cambiamento dei flussi migratori, accogliamo 99 nuclei familiari, sempre con una maggioranza di donne e minori anche con problemi fisici o psicologici».
Le tre parole dell’Arcivescovo

È di fronte a tutto questo che l’Arcivescovo chiede agli adolescenti a riflettere su tre parole. «Vi ho invitato in questo luogo perché l’opera di misericordia dell’accoglienza è una delle questioni più serie e complicate, ma anche più necessarie in questo momento. Il modo di migrare, di scappare per cercare una vita migliore, mi porta a dire tre cose. La prima è che il mondo è sbagliato: ci sono delle storie che non dovremmo sentire e che, invece qui, anche solo per qualche frammento, abbiamo sentite. Noi dobbiamo custodire lo sdegno, la capacità di dire no al mondo sbagliato. Temo, però, che alla vostra età vi sia come un’inclinazione alla disperazione, quando vi chiedete cosa sarà il domani».
L’invito è a guardare «all’invincibile voglia di vivere, alla capacità di resistere, alla tenacia di andare avanti che si vede qui. La seconda raccomandazione è che noi abbiamo da imparare da chi ha voluto vivere una situazione più dignitosa».
Infine, «costruiamo frammenti di luce, come questa Casa. Si cambia il mondo non accusando o deprecando, ma seminando frammenti di speranza, come fanno gli operatori della nostra Caritas ambrosiana che hanno voluto fare qualcosa, creando un luogo pieno di colori dove vengono i volontari a prendersi cura delle persone e a insegnare l’italiano. Vi lascio tre parole: il mondo è sbagliato, c’è un’invincibile voglia di vivere che guarda comunque avanti e ognuno può costruire un frammento di speranza».
Le stesse parole che, alla fine – prima della cena conviviale e multietnica -, lo stesso vescovo Delpini scrive su un grande foglio bianco appeso al muro, seguito da tutti i ragazzi.








