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Milano

Cristiani uniti per non rassegnarsi alla superficialità

Tra la memoria dei 1700 anni del Concilio di Nicea e la riflessione sull’attualità la celebrazione ecumenica promossa dal Consiglio cittadino delle Chiese. L’Arcivescovo: «Testimoniamo che la fede in Gesù risorto è il fondamento della nostra speranza»

di Annamaria BRACCINI

3 Giugno 2025
I partecipanti alla processione con la croce del Sinodo Chiesa dalle Genti all'ingresso di Sant'Ambrogio (Agenzia Fotogramma)

«L’eresia della superficialità non si può combattere con pronunciamenti solenni, né con condanne. Del resto, la superficialità, più che una eresia, è una rassegnazione. Di fronte a questo contesto culturale i cristiani sono chiamati a offrire la testimonianza che la professione di fede nella risurrezione di Gesù offre un fondamento invincibile per la nostra speranza».

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Nella giornata in cui 400 persone, fedeli delle diverse confessioni cristiane e ministri del culto, camminano per le vie del centro di Milano nella processione ecumenica «Camminare insieme nella luce della fede comune», è questo l’impegno che l’Arcivescovo chiede ai cristiani del Terzo millennio, ricordando i 1700 anni del Concilio di Nicea e guardando all’oggi. Se infatti Nicea – il primo Concilio ecumenico, iniziato il 20 maggio di 1700 anni fa – sancì un momento fondativo per la storia del cristianesimo con la definizione del Credo come espressione della fede che ancora oggi unisce i credenti in Cristo delle diverse confessioni, proprio nel richiamo a ciò che lega non poteva che risuonare quello spirito di pace e di condivisione capace di parlare, appunto, al mondo attuale.

Un momento della processione

La processione

«Abbiamo il desiderio di camminare insieme per la città. Una città che vive, per tanti aspetti, nella estraneità alle preoccupazioni della Chiesa cristiana e delle Chiese in Europa. Una città che vive di tante cose, di problemi, ma anche di ricchezze, in cui vogliamo camminare come un popolo che ha qualcosa da dire. Per questo invochiamo lo Spirito, perché la Pentecoste ci insegni le lingue con cui parlare alle donne e agli uomini di questa città», aveva detto poco prima monsignor Delpini, aprendo il momento iniziale della processione ecumenica, nell’antichissima chiesa di San Sepolcro. La processione è arrivata alla Basilica di Sant’Ambrogio (padre della Chiesa indivisa) con una sosta intermedia presso l’ingresso dell’Università Cattolica in largo Gemelli. Luoghi-simbolo per la cristianità, così come molto significativa è stata la data scelta per l’intera celebrazione, preparata a lungo e proposta dal Consiglio delle Chiese cristiane di Milano, volutamente nella serata del 2 giugno, festa dall’altissimo significato civile, che ha seguito la settima domenica di Pasqua, festa liturgica che ricorda i Padri del I Concilio ecumenico.

I rappresentanti delle Chiese davanti a Sant’Ambrogio (Agenzia Fotogramma)

Ad aprire il cammino – colorato delle vesti tipiche di alcune tradizioni, indossate anche da tanti bambini e giovani – la croce del Sinodo diocesano Chiesa dalle genti, «a dimostrare la Chiesa che siamo, non che ci immaginiamo», dice monsignor Luca Bressan, vicario episcopale e presidente della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo della Diocesi, avviando il percorso. Accanto a lui, tra gli altri, il responsabile del Servizio omonimo, il diacono permanente Roberto Pagani, diversi sacerdoti, il presidente del Consiglio delle Chiese cristiane e vicario eparchiale emerito della Diocesi ortodossa romena d’Italia padre Traian Valdman, padre Ambrogio Makar, archimandrita del Patriarcato di Mosca, altri alti rappresentanti delle Chiese ortodosse e il vescovo anglicano Andrew.

Molti i canti animati dalle corali delle diverse confessioni tra cui quelli eseguiti, anche durante il cammino, dalla Chiesa del Tigrai, il Tropario di Pasqua, Cristo è risorto cantato dai Romeni in largo Gemelli, fino alla sosta nell’Atrio di Ansperto, che ha preceduto l’ingresso nella Basilica di Sant’Ambrogio, ancora tra preghiere e melodie tradizionali come i Tropari della Chiesa serba. Poi gli interventi del pastore Andreas Koehn, della Chiesa valdese metodista di Milano, dell’Arcivescovo e del metropolita Policarpo della diocesi ortodossa d’Italia ed esarca per l’Europa meridionale del Patriarcato ecumenico che, approfondendo i temi conciliari niceani, hanno arricchito la celebrazione culminata nella recita corale del Credo e del Padre Nostro.

La celebrazione in Sant’Ambrogio (Agenzia Fotogramma)

Gli interventi

Dall’ampio excursus storico, relativo alle fonti dottrinarie della Chiesa evangelica valdese – tra cui l’articolo 13 della prima Confessione di fede, pubblicata 5 ottobre 1655, «che dice che ci sono natura umana e divina in Cristo, vero Dio e vero uomo» -, si avvia la riflessione del pastore Koehn che termina citando il Credo del migrante di oggi.

Da parte sua, il metropolita Policarpo, richiamandosi anche a scritti e composizioni di Ambrogio (il cui Te Deum che viene eseguito dopo poco dal Coro della Chiesa del Patriarcato di Mosca), spiega: «Alla base dell’intera discussione di Nicea vi fu il metodo, l’ascolto di tutte le posizioni teologiche. La pratica liturgica ha costituito il fondamento della lex credente. Come allora i 318 Padri hanno saputo ascoltare la parola di Dio nella liturgia, costruendo una prassi pastorale, anche noi oggi possiamo seguirne questo esempio, ponendo alla base la celebrazione dei Santi misteri, la preghiera, la liturgia. Ogni pensiero teologico, che si pone solo come pensiero filosofico, è sterile ed è una perdita di azione pastorale. I Padri fanno teologia dalla propria personale visione di Dio, gli eretici fanno filosofia. Il simbolo niceno è il segno tangibile della continuità teologica e della fedeltà della Chiesa alla verità rivelata».

Ovvio che questo dica molto in un contesto «ecumenico e ecclesiale che richiama la necessità di una fede accettata, vissuta e trasmessa. La Chiesa è chiamata, oggi come allora, a testimoniare il grande mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo, tanto che dei 12 articoli del Credo niceno-costantinopolitano ben 6 riguardano la natura divina di Cristo. Celebrare Nicea significa confermare la vocazione alla verità», scandisce il Metropolita. 

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«L’eresia di oggi è l’indifferenza»

«L’articolo che professa la fede nel Figlio della stessa sostanza del Padre è stato lo scopo principale del Concilio di Nicea. L’intenzione è di contrastare l’eresia ariana che negava la divinità del Figlio – sottolinea l’Arcivescovo -. Nella cultura contemporanea si può dire che l’eresia più diffusa siano l’indifferenza e la superficialità. Dell’articolo del Credo che professa la divinità del Figlio sembra che non siano significative la prima e l’ultima parte. Che ci sia stato un uomo che nacque da Maria, fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilano, morì e fu sepolto è una nozione storica edificante di cui si può ancora oggi essere ammirati: è un fatto della storia su cui è possibile convenire senza particolari difficoltà. Ma che sia della stessa sostanza del Padre, che sia risorto e che verrà a giudicare i vivi e i morti non sembra che interessi. Sono parole irrilevanti. Non c’è bisogno oggi di impegnarsi a negare la natura divina del Figlio, non c’è bisogno di impegnarsi a negare la risurrezione di Gesù: semplicemente non interessano».

Laddove – osserva ancora monsignor Delpini – «l’eresia non si può combattere con pronunciamenti solenni né con condanne, la superficialità, più che una eresia, è una rassegnazione. Laddove la verità cristiana è troppo superiore alla possibilità di comprensione e la speranza cristiana è troppo più grande dei desideri della gente di questo tempo, meglio essere agnostici, rassegnarsi alla morte piuttosto che sperare la risurrezione».

Ma è proprio in tale orizzonte culturale che i cristiani sono chiamati a offrire la testimonianza. «Offriamo la testimonianza che, con il dono dello Spirito, noi possiamo conoscere la verità di Dio, avere il pensiero di Cristo secondo la rivelazione di Gesù. Offriamo la testimonianza che la professione di fede nella risurrezione di Gesù offre un fondamento invincibile per la nostra speranza. In questo clima rassegnato e disperato – conclude l’Arcivescovo – abbiamo le responsabilità di testimoniare la capacità di conoscere Dio e di essere felici per sempre».

 

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