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27 Giugno 2003

testo e foto di Luca Frigerio

Bagliori e lame di luce, nere nuvole dai contorni iridescenti. Il sole tramonta improvviso, quasi inghiottito dalle alte cime che abbracciano la Val Camonica. E mentre la terra s’ammanta d’ombra e malinconia, lo sguardo cerca il chiarore del cielo, scosso da un’ultima esplosione di colori… E finalmente capiamo. Capiamo quale fascino avvince da sempre le genti di questa valle. Capiamo la magia e la forza che si sprigionano dalle pietre di quassù, istoriate da mani antichissime, cosparse da tracce senza tempo. E, soprattutto, capiamo la bellezza nascosta e ribelle di una terra a volte offesa, ai nostri giorni, da progetti folli di catrame e cemento. Come due sentinelle, silenziose, ieratiche, la pieve di San Siro e il monastero di San Salvatore vegliano dalle opposte sponde del fiume Oglio, nel territorio di Capo di Ponte. Ed è sorpresa nella sorpresa, meraviglia nella meraviglia. Luoghi d’incanto, che raccontano di una fede profonda, di un’arte sapiente. Gemme purissime d’architettura romanica, che si scoprono, come nella parabola evangelica, nel campo che non t’aspetti. E che per questo ci paiono ancora più preziose. La pieve di San Siro è da secoli punto di riferimento e compagna per i viandanti che percorrono la Val Camonica. Le sue absidi solide e slanciate svettano su uno sperone di roccia con imperturbabile fierezza. La si contempla da lontano, dal basso, e sembra inavvicinabile, inattaccabile. Per raggiungerla si deve allora salire di lato, perdendola di vista, tra i massi incisi dai Camuni e il bosco della montagna. Ma infine rieccola, la chiesa antica, affacciata sulla valle come in attesa paziente. Tutt’attorno si respira un’aria di rarefatta suggestione. Questo luogo è sacro da sempre: lo era per gli uomini dell’età del bronzo, lo fu per i romani, lo divenne per i primi cristiani. E chi decise di erigere proprio qui la chiesa di San Siro, tra l’XI e il XII secolo, volle dare continuità, consapevolmente, a una tradizione plurimillenaria. Il piccolo borgo di Cemmo, infatti, si stende più in là, oggi come un tempo, quasi timoroso di turbare la quiete della plebana. Delle sue origini poco si sa. Una leggenda la vuole fondata da Carlo Magno. Un’altra la dice costruita in origine dai Camuni convertiti dal vescovo Siro, patrono di Pavia, apostolo infaticabile che si spinse tra questi monti nel IV secolo. Quel che è certo, è che questa di Cemmo è una delle chiese matrici della Val Camonica, se non la prima in assoluto. Ma di quel primo tempio oggi non resta più nulla, se si esclude qualche frammento reimpiegato nella costruzione medievale. Eccezionale è la perizia con cui le maestranze romaniche lavorarono alla realizzazione di San Siro. Eccezionale, sosteniamo, perché impervio, insolito e angusto è l’ambiente in cui dovettero operare. Non c’è facciata, ad esempio; tant’è che la chiesa quasi sembra penetrare a occidente nella viva roccia. E la pianta stessa della pieve avrebbe dovuto essere quanto mai irregolare: avrebbe dovuto, ma non lo è, o almeno non lo si percepisce, perché gli abili costruttori seppero dissimulare le asimmetrie con un diverso spessore delle murature, adattando di volta in volta il progetto alla conformazione del terreno. Sul lato a meridione, l’unico veramente accessibile della chiesa, si apre un nitido portale, ornato di tralci vegetali e di figure mostruose, purtroppo fin troppo “ripulito” nei restauri d’inizio Novecento. L’interno mostra un equilibrio insospettato: le tre navate si animano di luci e ombre, dilatando lo spazio con effetto piacevolmente illusionistico. E lo stesso è per la ripida gradinata di fondo, resa necessaria dall’affiorare della roccia, ma che così concepita dà respiro e profondità all’insieme. È qualcosa di inatteso, come inattesa è la luminosità della cripta, autentico cuore di questa chiesa, impreziosita da splendidi capitelli carolingi. Il monastero di San Salvatore si trova non molto distante, superato di poco il moderno abitato di Capo di Ponte. La mole della sua chiesa, armoniosa, severa, si intravede tra gli alberi, svelandosi a tratti tra l’oro del fogliame e il verde dei prati. Sorge su un’altura modesta, appartata, in splendida solitudine: proprio il luogo che i neri monaci cluniacensi avevano desiderato per il loro ritiro.