Cosa lega un diciassettenne bresciano, futuro Arcivescovo di Milano, destinato a divenire Papa e Beato e un ragazzo nato in Egitto nel 1990, arrivato in Italia tre anni fa «senza amici e senza lavoro»? Il Signore Gesù e quella domanda che urge nel cuore di tanti giovani di ieri e di oggi, “Chi siamo? Quali sono i nostri ideali e come vivere la fede cristiana?”
Del primo di questi due giovani di epoche e millenni diversi, Giovanni Battista Montini-Paolo VI, si sa molto – le sue parole che risuonano in un Duomo gremito di oltre cinquemila ragazzi provenienti da tutta la Diocesi – sono solo la conferma di un profilo spirituale e umano che continua ad affascinare generazioni di credenti; del secondo, Peter, copto di origine, appunto, egiziana, si può, invece, solo intuire, attraverso la sua bellissima e semplice testimonianza, la vita non facile, la malattia che lui stesso racconta, il trapianto renale, ma soprattutto la forza di un cristianesimo professato e perseguitato.
È la “Redditio Symboli” presieduta dall’Arcivescovo, che, quest’anno, si svolge in un unico momento in Cattedrale, dove si danno appuntamento i 560 19enni che consegnano la “Regola di vita”(l’anno scorso erano “solo” 450), circondati da amici, coetanei, educatori, sacerdoti e religiose e concludendo, così, il loro cammino biennale. Alcuni di loro siedono in Altare maggiore accanto ai responsabili della Pastorale Giovanile della Diocesi, con il Vicario Episcopale, monsignor Pierantonio Tremolada, e altri quattro Vescovi Ausiliari e Vicari di Zona.
«In Egitto siamo quasi trentasei milioni, cristiani fieri di esserlo», dice Peter, che aggiunge: «Anche se c’è una discriminazione forte, non ci scoraggiamo e preghiamo per tutti. In Egitto il Presidente della Repubblica non può essere cristiano e sono pochissimi quelli della nostra religione che arrivano agli alti gradi dell’esercito o nella carriera accademica. Nel Paese nessun cristiano gioca nella Nazionale di calcio ed è più facile costruire una discoteca che una chiesa, tanto che mio padre stesso – un prete ortodosso – è stato minacciato insieme ai fedeli con cui volevamo edificare la chiesa nel nostro quartiere popolare del Cairo. Basti pensare che, dopo il peggioramento della situazione nel 2011, in un solo giorno, a Minià nell’Egitto del sud , undici chiese sono state distrutte in un solo giorno. Tuttavia, non sono qui per chiedere aiuto, ma per farvi capire che avete tra le mani un tesoro immenso: la libertà di essere cristiani, professando liberamente la fede».
L’applauso, spontaneo e forte che risuona tra le navate, accoglie queste ultime parole. E proprio da qui prende avvio la riflessione del Cardinale.
«Peter – scandisce l’Arcivescovo – ha concluso con un’affermazione che ci scuote e percuote, rivolta a ciascuno singolarmente preso, perché noi siamo una fraterna amicizia nella libertà, non una massa informe. Prima di tutto dobbiamo capire chi siamo, perché non lo capiamo più, anche se frequentiamo la parrocchia».
Il riferimento è al nostro essere «europei confusi, stanchi e accomodati» in quella che Scola definisce «una finitudine gaia, dove illudersi di rendere questo piccolo continente che è l’Europa, una realtà separata dal mondo che continuerà a vivere e a godere dei suoi privilegi».
Di fronte alla domanda stringente e prioritaria, «perché siamo cristiani?», occorre, insomma, comprendere che credere in Gesù significa fare esplodere il desiderio di felicità in tutta la sua forza – «non con le piccole mète, non attraverso il piacere che si consuma in pochi minuti» – ma in ogni atto, circostanza e rapporto». Appunto quella “smania di felicità indefinita” che descriveva Montini all’amico e compagno di scuola Trebeschi, dove non dimenticare mai che la vita è anche prosa”, fatta dell’esperienza spesso scoraggiante di ogni giorno, «con la consegna dei curricula ai quali non viene data risposta, con il voler bene alla tua ragazza e non poter creare una famiglia».
Ma come trovare questa “forza”? Il richiamo è al Vangelo di Giovanni 15 dà il titolo alla “Redditio” e delinea, all’inizio di questo Anno Pastorale, lo stile della Comunità e del metodo educativo rivolti ai giovani.
«La metafora della vite e dei tralci, dove tutto si gioca sul restare uniti, significa che solo in un legame profondo ed essenziale si ha il frutto, cioè si impara a vivere e ad amare», osserva il Cardinale, che indica «quale seconda condizione», la necessità di capire il senso autentico dell’appartenenza a Gesù «non come un’affermazione teorica, ma come intenzione concreta».
«Noi siamo in relazione perché un Altro, la vera vita ci convoca insieme», sottolinea.
Cita, Scola, i versi di una canzone di Giorgio Gaber, inviatigli da un ragazzo che consegna la “Regola”: “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è neanche il conforto di un normale voler bene, è avere gli altri dentro di sé”, ossia «vivere in un orizzonte in cui ciò che faccio è segnato dalla presenza dell’altro, sapendo che se siamo degli “io in relazione”, ciò non dipende dalla nostra iniziativa, ma da quella di Dio che ci “tiene” uniti da duemila anni».
Emerge, allora, la necessità di un terzo passo relativo alla possibilità, alla «condizione per rimanere nel Suo amore, ancorati in Lui in maniera libera e personale, coinvolta e totale».
Bello ed incisivo il monito del Cardinale: «Il desiderio che la nostra società sia più giusta, che l’Europa risorga, che tuo padre e tua madre trovino un’intesa che, magari, hanno perduta, la speranza che le guerre finiscano, la tua capacità di inventare e studiare, tutto deve essere ragione per rimanere un Gesù».
Ma dove è il “come” di questo permanere? «Risposta, al contempo, facile e difficile», suggerisce il Pastore: «Noi, la compagnia consapevole di Dio che è ora, qui e adesso, siamo questo “come”». Un “insieme” annodato dal filo rosso solido che è la “Regola di vita”, «scelta di libertà che vive il “Tu mi sei necessario” e si spalanca al mondo. Regola che ci aiuta a dare stabilità alla comunità, che lega a quella radice forte da cui nasce «non il cameratismo goliardico e chiassoso, ma il frutto gustoso della vita, la letizia e la gioia anche nelle avversità; unione da cui si impara il “mestiere” della vita come donne e uomini riusciti, condividendo il bisogno e mettendo in comune tutto ciò che di buono abbiamo». Nasce da questa comprensione «l’invito più bello che un adulto possa fare a voi ragazzi, perché la pace sia possibile, perché possa avverarsi la rinascita di un nuovo umanesimo nelle nostre terre di Lombardia», conclude l’Arcivescovo: «Passate, passiamo dal condizionale del “vorrei”, al “voglio amarti, Signore”, perché confido in Te e nella compagnia della tua Chiesa».
Infine, il silenzio raccolto, la consegna della “Regola” nelle mani del Cardinale e degli Ausiliari, la preghiera della “Redditio” del cardinale Martini, la lettura di piccoli, ma assai significativi brani tratti dalle “Regole di Vita” dei 19enni, le Esortazioni di Greta, educatore del “gruppo Samuele” che ne narra la sua felice esperienza e, ancora, di Peter. E c’è ancora tempo, mentre i grandi portali del Duomo si aprono, per i ringraziamenti di don Marurizio Tremolada e di monsignor Pierantonio Tremolada che raccomanda la lettura del testo “Linee di pastorale giovanile” «a disposizione da stasera sul sito della Diocesi», e che comunica ai giovani che, per Expo, «sarete invitati a offrire la vostra disponibilità come volontari». Il pensiero è anche per le cappellanie universitarie – in rete con il sito e il giornale “Universi” – con il loro ruolo fondamentale.
«Ricordate sempre che la fede è un’umile vittoria che rende e “tiene” il cuore largo: tutto è vostro, niente è escluso, ma voi siete di Cristo e Cristo e di Dio». Questo l’impegno che l’Arcivescovo lascia ai giovani – «l’anno prossimo dovete essere molti di più, invitate tutti i vostri amici, voglio vedervi fino sul Sagrato» –, prima dell’abbraccio e degli immancabili selfies, tra le navate in una sera lucida di festa, musica e colori.