Martedì 29 aprile l’Arcivescovo Mario Delpini, in occasione della sua visita pastorale, ha incontrato i giovani del Decanato di Oggiono. Al momento iniziale e conviviale della cena è seguita una serata di dialogo fraterno, durante il quale l'Arcivescovo ha invitato i giovani presenti a dare ragioni della speranza che è in loro e a cercare in Gesù le risposte alle domande e alle questioni più vere e radicali circa il senso della vita
Letizia
Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università
Un’accoglienza calorosa ha segnato martedì 29 aprile l’arrivo dell’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, all’oratorio San Filippo Neri e Sant’Agnese di Oggiono, dove ad attenderlo c’erano i giovani del Decanato. Applausi, sorrisi e saluti hanno dato il via a una serata densa di riflessioni, condivisione e ascolto reciproco. La serata è cominciata in semplicità, con una cena condivisa e un gesto simbolico: il taglio del “pane del Giubileo”, realizzato da un panettiere di Annone per l’occasione. «Un piccolo segno», lo ha definito l’Arcivescovo, «per dire che mettiamo nella nostra bisaccia un po’ di energia per andare a Roma al Giubileo dei Giovani». L’Arcivescovo ha ringraziato per l’incontro, che si inserisce nella visita pastorale che si svolgerà in queste settimane nel decanato di Oggiono, nelle singole parrocchie, visitando le varie comunità pastorali e incontrando le diverse realtà che le animano. Presente alla serata anche il Vicario episcopale della Zona di Lecco, don Gianni Cesena.
Nel salone dell’oratorio, per il momento di confronto, una buona rappresentanza dei 18/19enni e giovani del decanato: alcuni stanno seguendo una catechesi unitaria, iniziata quest’anno, altri camminano con i percorsi parrocchiali; c’era anche qualche giovane del gruppo “Speranza” che si occupa di animazione con le persone con disabilità per l’associazione “La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini.
Le domande che hanno guidato il dialogo, al centro dell’incontro, sono state pensate in una serata recente dove è stato chiesto ai giovani, a partire da ciò che stanno realmente vivendo (non da “massimi sistemi”, ma dalla loro reale esperienza), cosa avrebbero desiderato maggiormente “mettere nelle mani” dell’Arcivescovo per un confronto.
E lui, subito, come premessa, li ha incoraggiati a vivere con profondità questo momento, perché le parole siano prese sul serio come qualcosa che interroga personalmente le scelte e “il vento non se le porti via”: «Le domande riguardano punti fondamentali, problematiche e alcuni aspetti che secondo me sono molto importanti e quindi mi piacerebbe capire che cosa se ne farà delle risposte. Io personalmente sogno che ci sia un tempo, magari tra un po’ di tempo, in cui riprendere la serata, in cui ognuno possa dire una frase che ha raccolto». Ha poi aggiunto, con un sorriso: «Naturalmente potrei anche darvi appuntamento a Roma, al Giubileo, per “interrogarvi” su cosa vi è rimasto».
Una ragazza ha dato inizio al confronto, ponendo una questione molto sentita: «Noi giovani abbiamo tanto entusiasmo nel vivere e preparare le varie iniziative pastorali per i ragazzi, ma ci accorgiamo amaramente che questo entusiasmo e questa bellezza non riescono ad arrivare né ai bambini/ragazzi, né ai loro genitori. Come fare a contagiare gli altri del nostro entusiasmo? Ha senso continuare a proporre sempre in questo modo? Ci accorgiamo che il nostro stesso entusiasmo così cala».
«Le risposte a certe domande bisogna cercarle in Gesù», ha spiegato l’Arcivescovo, chiedendo loro di familiarizzare con il Vangelo, la Parola di Dio: perciò, come Papa Francesco invitava a tenere sempre in tasca un’edizione piccola, tascabile, del Vangelo, per leggerla spesso, così per ciascuna domanda assegna un brano, come riferimento. L’Arcivescovo ha risposto indicando quindi il Vangelo come bussola, e in particolare il brano di Luca 14, dove si parla di un grande banchetto ma tutti gli invitati, uno dopo l’altro, trovano una scusa per non andare. In questa pagina del Vangelo quel tale che aveva preparato il banchetto è andato allora a chiamare altri “poveri”, coloro a cui tanto spesso ci richiamava Papa Francesco. Anche nella nostra missione sperimentiamo la delusione per gli inviti non raccolti. Gesù quando ha visto che la gente non ascoltava e se ne andava ha detto: “E voi? Volete andarvene anche voi?”. Ha detto loro l’Arcivescovo: «Io direi che la nostra attenzione agli altri deve cercare più le relazioni che l’organizzazione. Cioè noi dobbiamo organizzare feste, oratori feriali, e curare le iniziative, però dobbiamo cercare il rapporto personale con questi ragazzi, con i loro genitori, parlando e dicendo: “abbiamo una proposta per te”. La seconda risposta è a questo tema dell’entusiasmo che viene meno e della scarsa adesione che si ottiene. A questo proposito io vorrei dire: ma questo entusiasmo da dove viene? Se l’entusiasmo viene dai risultati, allora capisco bene che il fatto che gli altri non accettino fa spegnere anche il vostro entusiasmo. Ma io credo che l’entusiasmo per una proposta cristiana dentro la comunità cristiana non può venire esclusivamente dai risultati, ma deve venire da quella relazione con la radice dell’entusiasmo che è il Signore Gesù. Noi dobbiamo mantenere vivo il desiderio, il gusto di fare il bene non perché gli altri ci applaudono o perché tutto il paese aderisce a questa cosa».
Un giovane ha poi raccontato la difficoltà di confrontarsi con amici e persone, molte volte non credenti: «Spesso ho di fronte un muro. Come fare, in un contesto così a sfavore, a essere sinceri e portatori di un messaggio che, nello stesso tempo, possa smuovere e far riflettere l’altro?».
L’Arcivescovo ha citato la Prima lettera di Pietro (13-19): «Noi dobbiamo dare ragioni della speranza. Noi siamo responsabili della speranza degli altri, perché noi abbiamo trovato dove fondare la speranza». E ha continuato: «Mi pare che tra ragazzi e ragazze della vostra età, a volte si parla per parlare, quindi non si dice niente; si fanno battute, però capitano dei momenti in cui le questioni sono serie. Ma tu cosa pensi di fronte alla morte? Tu cosa pensi di fronte all’amore, o al nascere? Quelle questioni fondamentali, da cui la gente troppo spesso cerca di evadere per parlare di cose più superficiali. Pensiamo allora al racconto della risurrezione di Lazzaro quando Gesù scoppiò in pianto di fronte all’amico morto e dissero allora i giudei: “guarda come lo amava”; ma alcuni dissero: “lui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che costui non morisse”? Ecco, dare ragioni non significa fare catechismo in università o in ufficio o dove voi siate, ma affrontare le questioni radicali quando si propongono, per dire: “io penso che Gesù è risorto” ed è l’unica speranza di fronte alla morte».
Un altro giovane ha toccato una questione generazionale: «Più cresco e più mi accorgo che tra noi cristiani esistono due modi di vivere la Chiesa: uno è nella logica dei precetti e del “si è sempre fatto così”; un altro è quello di persone che scelgono liberamente di aderire al Vangelo con serietà e convinzione. Mi chiedo: i due stili sono davvero così diversi?».
L’Arcivescovo ha respinto l’idea di una contrapposizione netta: «Non bisogna fare una distinzione così, contrapponendo la tradizione, come inerzia, e la novità, l’inquietudine, come ricerca di autenticità. È diventato uno slogan, quello che dice: “dobbiamo passare da una fede di tradizione a una fede di convinzione”; come se tradizione e convinzione fossero due cose quasi contrapposte, una cattiva e l’altra buona, una un po’ da vecchiette devote e l’altra da giovani pensanti. Io non sono d’accordo. La Chiesa è fatta di una pluralità di espressioni, ma è uno solo lo Spirito», suggerendo di imparare la conversazione, cioè il parlare che non è soltanto per dire delle banalità e non è neanche per fare delle polemiche, ma quel modo di parlare in cui io ti ascolto, perché so che tu hai qualcosa da dire e tu mi ascolti ed è una ricchezza. Ha rilanciato il valore del dialogo intergenerazionale, come luogo dove si può davvero costruire una Chiesa viva e accogliente: «Come sarà il futuro? Sarà come lo faremo noi. Come sarà la Chiesa? La Chiesa sarà come la faremo noi».
Un ragazzo ha portato un disagio diffuso tra i giovani: «In molte Messe non sento mai come rivolto a me quel che il prete dice, non capisco nulla, è tutto distante e teorico. Cosa me ne faccio delle cose dette? In generale, capisco che mi condiziona tantissimo la qualità del sacerdote nel commentare le Scritture. Come Lei Vescovo “cambierebbe” la Messa affinché parli davvero alla gente – giovani soprattutto – di oggi? Più in generale: quale equilibrio tenere per comunicare all’uomo di oggi la fede (con linguaggi che possa comprendere) senza compromettere il messaggio stesso?»
L’Arcivescovo ha risposto con due immagini forti: la sete e il fuoco. «Il primo è la questione della sete. Se uno non ha sete, non si interessa dell’acqua che scorre. Ecco, io vado a Messa non perché ho un dovere da eseguire o un buon esempio da dare a un adolescente o quello che sia; vado a Messa perché ho bisogno di Gesù e anche se non provo emozioni particolarmente coinvolgenti, so che ho bisogno di Lui. La mia vita senza Lui non ha senso. Uno va a Messa perché crede che Gesù sia qui».
Citando due brani, quello che conclude il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, sul “pane della vita”, e quello che riporta la domanda “volete andarvene anche voi?”… da chi andremo, tu hai parole di vita eterna!, l’Arcivescovo ha detto: «Io francamente ho l’impressione che non sia molto diffusa questa fame, cioè i cristiani di oggi, forse anche voi, sono molto impegnati, si dedicano a opere educative come fai tu, a opere di carità, vivono seriamente il loro mestiere, con onestà; però qualche volta ho l’impressione che a proposito di Gesù e della vita eterna, questi siano argomenti che stanno sullo sfondo, cioè come se fossero la fotografia del fuoco, piuttosto che il fuoco». Ha insistito sull’importanza della via della bellezza nella liturgia, nella cura dei canti, dell’arte, della comunità che si ritrova per celebrare.
Infine, un altro giovane ha posto una domanda concreta: «Cosa significa aiutare i poveri e i fragili? Come riconoscere il reale bisogno e come non fare discriminazioni? Come fare carità cristiana bene?».
L’Arcivescovo ha richiamato la parabola del Buon Samaritano: «Chi è mio prossimo? Di chi devo farmi carico e devo riconoscere i bisogni? Tu non puoi prenderti cura di tutti, tu puoi prenderti cura di uno. La carità, l’attenzione ai poveri, il prenderti cura di chi ti è di fronte esigono una relazione, un’attenzione a un povero, anziano, disabile, compagno nello studio, piuttosto che una beneficenza, una elemosina. Noi non possiamo sentirci gravare di tutti i bisogni del mondo o ci scoraggeremmo, ma di gesti minimi, che nel prendersi cura vanno a stabilire una relazione, non soltanto a dare un aiuto ma a costruire rapporti di fraternità».
Al termine ciascun giovane è stato invitato a lasciar sedimentare dentro di sé quanto emerso, facendo risuonare quanto si è ascoltato e provando a riconoscere, tra i pensieri condivisi, ciò che più degli altri li interpella oggi. Affidando il tutto a Gesù, nello spazio del silenzio e della preghiera, perché ci faccia vedere Lui come camminare nel Signore.


















