«Chiediamo al Signore di accompagnarci in questo ultimo tratto dei nostri Esercizi, sentendoci in comunione con tutti i giovani della nostra Diocesi». Con queste parole, quasi un invito a entrare in punta di piedi nel mistero, si è aperta l’ultima serata degli Esercizi spirituali per i giovani, un’esperienza di grazia vissuta qui, nella Basilica di Santa Maria Assunta a Gallarate per la Zona II insieme all’Arcivescovo Mario Delpini, e contemporaneamente nelle altre sedi delle Zone pastorali della Diocesi. Tre sere consecutive, tre passi di un unico cammino per «far risuonare la voce dello Spirito» nel tempo propizio che prepara al Natale

Letizia Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università

EESS Gallarate - Sito

Al centro della meditazione, la figura di Saulo-Paolo, una figura decisiva e centrale negli Atti degli Apostoli: la chiamata, la conversione, la frattura che spezza una vita e la grazia che la ricostruisce. Un giovane uomo, testimone del martirio di Stefano, attivo nella persecuzione dei cristiani, deciso a spingersi fino a Damasco pur di spegnere il fuoco di quel Gesù risorto che stava scuotendo Gerusalemme, ed arrestare gli uomini e le donne fanatici di Gesù. Ma proprio nelle vicinanze di Damasco qualcosa di inimmaginabile gli cambia il cuore e la vita.

L’Arcivescovo ha condotto tutti dentro la scena drammatica raccontata dagli Atti: «Avvenne che, mentre era in viaggio… all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e cadendo a terra…». Da lì si è allargato in una meditazione intensa, concreta, che ha toccato l’esperienza di ogni giovane presente.

«Vi parlo dunque del giorno del cadere a terra, quel giorno in cui la vita ti ha buttato a terra», ha detto, indicando quel momento in cui la vita sembra strapparci il terreno da sotto i piedi. «È stato quell’esame finito male… E forse in questo momento di scoraggiamento hai intuito una voce che forse ti diceva: ma cosa stai facendo? Ma non è che per caso tu sia un fallimento? Che abbia sbagliato strada?».
Oppure «è stato quell’amore tradito, quella speranza di una storia d’amore che si è interrotta. Quelli intorno a te ti hanno detto: cosa vuoi farci? Ci saranno altri ragazzi, altre ragazze, altre storie d’amore. Ma tu avevi investito molte attese su questo amore e la rottura ti ha buttato a terra». «E in quel momento» – ha continuato – «forse hai come intuito una voce che ti diceva, ma cosa stai facendo? Che valore ha quello in cui hai tanto investito? E che valore hai tu se così facilmente ti ha lasciato/ti ha lasciata…».
L’Arcivescovo ha proseguito con altre scene di vita, altre cadute: «quell’accertamento medico che ha dato un nome inquietante al malessere che avevi da un po’ di tempo», la diagnosi inattesa, le rassicurazioni sui progressi della medicina e le possibilità di cura ma la “mazzata” spezza la passione per lo sport. O, ancora, la frattura familiare che ti fa crollare il mondo; i litigi interminabili dei genitori culminati nella separazione: «e forse in quel momento hai sentito come un sospiro, una voce, che diceva: e adesso cosa sarà di me?».
«Ciascuno, credo, può raccontare la storia di quel giorno in cui la vita ti ha buttato a terra», ha confidato. Come Saulo, «pieno di ardore, di voglia di imprigionare i cristiani, buttato a terra…».

La domanda allora si fa inevitabile: che cosa resta quando le certezze si sgretolano?
«Quel giorno in cui sei caduto a terra quella voce ti ha raggiunto come una inquietudine e può essere stato anche il momento in cui le certezze si sono rivelate precarie. E la fede si è smarrita. Dove sei Signore? Chi sei Signore? Come fai ad aiutarmi Signore? Così Paolo chiede: chi sei? E il trauma di questa caduta e lo svanire di una aspettativa, il crollo delle sicurezze che sembravano inattaccabili che risultato hanno?»
Saulo, riporta il libro degli Atti, rimane cieco per tre giorni: «E attendeva un qualche segno per orientare la sua vita. Così capita anche a noi, quando siamo a terra: si resta storditi, incapaci di guardare avanti».
Eppure, ha osservato Delpini, c’è una forma di resistenza che dà speranza: la preghiera. «Saulo pregava». Non sappiamo come, ma probabilmente «aveva nella mente i salmi, la Parola di Dio». E l’Arcivescovo ne ha citati diversi:

Mostrami, Signore, le tue vie, guidami sul retto cammino (Sal 27,11)
O Dio, santa è la tua via, quale Dio è grande come il nostro Dio (Sal 77,14)
Mostrami Signore la tua via perché nella tua verità io cammini. Tieni unito il mio cuore (Sal 86,11)
Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e io mediterò le tue meraviglie (Sal 119, 27)

O Dio santa è la tua via, quale dio è grande come il nostro Dio (Sal 77, 14)

«Come pregava Saulo? Penso con la parola di Dio», ha sottolineato. «Anche noi forse conosciamo qualche espressione che ci ridà le parole quando non sappiamo cosa dire e forse facciamo bene ad avere in mente qualche parola dei salmi o delle preghiere che ci hanno insegnato o naturalmente il Padre nostro».

La svolta, negli Atti e nella vita, arriva per mezzo di un incontro: Anania. «Un uomo di Dio che accetta il rischio di avvicinare il persecutore temibile», ha ricordato l’Arcivescovo. E così è probabilmente per la nostra vita.
Qui la meditazione si è fatta ancora più personale: «Chi ci ha restituito voglia di vivere, fiducia nel futuro, intuizione della strada da percorrere?». La risposta, per Delpini, è semplice: «Forse anche noi potremmo dire, sinteticamente, è stata la Chiesa: la mia comunità, il gruppo degli amici, il mio prete, la mia suora, un educatore, mio papà, mia mamma, i nonni… sono le tante persone che sono venute a trovarci nel momento in cui l’essere buttati a terra ci ha resi ciechi, cioè smarriti».
E ha citato le parole commoventi di Anania: «Fratello, mi ha mandato a te il Signore… perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo». Quante volte, qualcuno ci ha detto così, senza dirlo, offrendoci un gesto, un ascolto, una presenza che ha riaperto la strada. «E se mi viene dato uno sguardo nuovo, che cos’è che vedo? Saulo e forse noi stessi possiamo dire così: vedo vie nuove da percorrere… vedo con uno sguardo diverso quello che sono stato fin qui».
Riacquistare la vista significa riconoscere la verità su di sé: «Saulo, lui che si credeva il difensore della vera religione, per tutta la vita dirà: sono stato un bestemmiatore, un persecutore». Eppure quel passato non diventa una condanna, «con lo sguardo ricevuto per grazia riconosce di aver sbagliato: lo sguardo nuovo gli rende possibile guardare in modo diverso gli altri, quelli che lui voleva mettere in carcere li guarda e li riconosce “fratello, sorella” e vede anche il suo fallimento non come una rottura irrimediabile»: riacquista la vista e comincia a dare testimonianza di quel Gesù che ha incontrato sulla via di Damasco. «Persino il male che ho compiuto può essere trasformato in un motivo per fare del bene». E vedere in modo diverso il mondo, le persone e vedere la propria strada, la propria vocazione, il passo possibile da compiere quest’oggi.
«Ecco il racconto di questo evento impressionante che ha sconvolto la vita di Saulo sia pure in modo magari più modesto possiamo però applicarlo anche a noi, anche noi qualche volta abbiamo sperimentato che la vita mi ha buttato a terra, anche noi abbiamo avvertito e sofferto l’inquietudine: chi sei o Signore? Dove sei? Anche noi abbiamo sofferto di cecità, di smarrimento, anche noi abbiamo sentito la misericordia della Chiesa, l’attenzione di qualcuno che ci ha detto: fratello, sorella, mi ha mandato a te il Signore perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo. E hai riacquistato la vista».

Lo sguardo nuovo permette di vedere «vie nuove da percorrere». «Per questo» – ha insistito l’Arcivescovo – «accostarsi al sacramento della confessione, stasera o nei prossimi giorni o prima di Natale, non è solo accusarsi del male che uno ha compiuto, ma è chiedere che questa premura della Chiesa, del prete che ti assolve, sia come quella di Anania, che aiuta a riacquistare la vista e a ricevere il dono dello Spirito».

Dopo la meditazione, un prolungato silenzio ha accompagnato la preghiera personale e la possibilità, accolta da molti, di confessarsi. «In questa chiesa», è stato ricordato, «il sacramento della Riconciliazione diventa esperienza giubilare», un passaggio attraverso la misericordia nell’Anno Santo. Il giorno precedente i giovani avevano vissuto un piccolo pellegrinaggio dall’oratorio alla Basilica, «come pellegrini di speranza»; questa sera, invece, hanno potuto ricevere così anche il dono dell’indulgenza, per vivere fino in fondo l’esperienza che ci offre il Giubileo.

In chiusura, il Vicario di Zona don Franco Gallivanone ha richiamato con affetto la gratitudine verso l’Arcivescovo: anche lui, ha detto, «ha bisogno dell’abbraccio dei giovani». Abbraccio che si è fatto voce nel grido corale: «Kaire, vescovo Mario!». Un invito a ricordarlo nelle messe delle comunità, pronunciando con cuore riconoscente quel “grazie” che in greco moderno suona «ευχαριστώ (efcharistó)».

Come sempre, gli Esercizi si sono conclusi con l’actio. L’Arcivescovo ha richiamato le consegne dei giorni precedenti: «alzarsi cinque minuti prima o anche di più, rispetto al necessario, per fermarsi in preghiera», «rivedere o ripensare la Regola di vita» sabato 6 dicembre alle 9.04, oppure lo stesso giorno alla stessa ora, un “giusto” orario, il giorno dell’Immacolata.
Per questa ultima sera l’impegno è particolare: ricevere il libro degli Atti degli Apostoli. Ma leggerlo con calma, pregarlo, ma – ha sorriso Delpini – «proibendovi» simpaticamente di iniziarlo prima del 18 gennaio, annotandosi anzi di iniziare a leggerlo proprio da quella data, giorno in cui comincia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Gli Atti, con le su vicende belle e complicate della Chiesa antica», ha detto,«sono un buon testo per meditare sulla Chiesa, lo Spirito Santo, la missione».
La consegna si è fatta segno di fraternità: ai giovani è stato chiesto di prendere, se possibile, per chi ne aveva la possibilità, una seconda copia, da portare a un coetaneo della propria comunità che, a causa di una disabilità o di una malattia, non ha potuto essere presente. «Queste persone saranno felici se vi ricordate di loro», ha detto l’Arcivescovo, invitando a un gesto semplice, ma profondamente delicato e necessario. Un segno di attenzione speciale, proprio nel giorno del 3 dicembre, Giornata internazionale delle persone con disabilità.

La serata si è chiusa così: tra silenzi, sorrisi e la consapevolezza che quella luce di Damasco continua a brillare. Perché la vita ci butta a terra, ma il Signore ci raggiunge, la Chiesa ci rialza, e lo Spirito ci dona la vista. E allora il futuro si può guardare di nuovo: «anche la mia vita, anche la tua vita, può riprendere quando una attenzione della Chiesa ci raggiunge personalmente».

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