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Milano

Delpini: la vera cura non cerca solo guarigione, ma promuove libertà

Le urgenze attuali della sanità sono state al centro del convegno promosso dall’Auxologico con la partecipazione dell’Arcivescovo, che è intervenuto parlando di “vita buona”, possibile anche quando c'è la malattia

di Annamaria BRACCINI

14 Ottobre 2025

«Cura il prossimo tuo come te stesso. Potremo ancora curare tutti?». È un interrogativo complesso e, forse, senza risposta, quello che dà il titolo al convegno promosso dalla Fondazione Auxologico, in collaborazione con l’Arcidiocesi e svoltosi presso l’ospedale San Luca. Un’assise affollata a cui non è voluto mancare l’Arcivescovo che ha proposto la relazione introduttiva, dopo i saluti istituzionali del presidente dell’Auxologico, Mario Colombo, e del responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale della Salute, don Paolo Fontana, attento a sottolineare il dovere della riflessione «soprattutto in questa nuova stagione, dove la medicina fa passi da gigante con le famose tre “P”: medicina preventiva, predittiva, personale e partecipativa, attirando il business e molti capitali». 

«Potremmo fermarci a indicazioni di tipo tecnico – prosegue don Fontana- invece, questo convegno vuole fare emergere le domande culturali e antropologiche che rimangono spesso implicite, in un orizzonte condiviso che ricerca il senso della vita e della speranza autentica».  

«La domanda se possiamo curare tutti – aggiunge Colombo – oggi non è retorica, e bisogna tenere sempre presente che quando si tratta della cura si parla della persona umana. Il rischio che si corre, nello squilibrio evidente tra le risorse e la richiesta, è che i più poveri, i grandi anziani, i portatori di malattie rare o poco attrattive per le case farmaceutiche, siano lasciati indietro, non avendo accesso a corretti settings di cura. “La persona è un bene in sé per sé e c’è, pertanto, un diritto alla vita, non sulla vita”, come scrive un documento della Cei. In una nazione come l’Italia, dove il diritto alla salute è sancito dalla Costituzione e vi sono leggi precise, la discrepanza tra le possibilità di cura nelle diverse regioni dovrebbe essere già un primo target di attenzione per tentare di curare tutti, eliminando i viaggi della speranza e verificando, ad esempio nel concreto, se una persona può essere curata nella propria regione». Così Colombo, chiude i saluti istituzionali, evidenziando la chiara problematica e il disagio legati attualmente al personale infermieristico.  

L’intervento dell’Arcivescovo

«Io ho fiducia perché la lettura catastrofica della storia non può essere costruttiva e spesso orienta a strade sbagliate, come dimostra l’allarme per la “bomba demografica” di qualche anno fa», mette subito in guardia monsignor Delpini che cita anche il pericolo di una «lettura prometeica della storia, animata dalla presunzione dell’onnipotenza che ha, probabilmente, come esito la desolazione del fallimento», mentre «la lettura cristiana si può riassumere come responsabilità di cogliere in ogni situazione un’occasione, una vocazione, una provocazione a prendere decisioni».

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«La questione che risulta insolubile dichiara: è impossibile curare tutti, infatti, crescono le esigenze di cura in modo sproporzionato rispetto alla crescita delle risorse, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. Ma, così, il tema della cura rischia di essere ridotto alla dimensione quantitativa, suggerendo di parlare solo delle risorse disponibili, della necessità di riorganizzarne la distribuzione, di vigilare sullo sperpero, di colpevolizzare il dispendio in modo scorretto», aggiunge il vescovo Mario che si interroga su come si possa uscire dal dramma dell’impotenza di fronte alla sproporzione.

La rivoluzione culturale

«Si può esigere – dice -, forse,una rivoluzione culturale, passando dalla cultura del calcolo a quella della libertà, da quella che calcola appunto le risorse disponibili e quanto costano, a un’altra che considera l’umanità, non solo come qualcosa da curare, ma come un insieme di persone che vivono una libertà. La vita buona è quella in cui è possibile amare ed essere amati, nella quale si coltiva la risposta a una vocazione, vivendo bene nelle condizioni precarie in cui tutti siamo, perché la persona è la sua libertà dentro il corpo e una trama di relazioni. La domanda su come dobbiamo curare deve porsi, allora, più a servizio di una cultura di libertà che di un’esigenza di guarigione. Per questa visione, la normalità è la possibilità di scegliere, nella salute e nella malattia, senza rassegnarsi, ma aprendosi alla speranza».

Come a dire, la cultura della liberà contrasta il dolore, ma professa la libertà anche nella malattia. «Questa cultura, anche se non può esonerarsi dal calcolo delle risorse confrontandosi con le potenzialità delle tecnologie e le differenze delle condizioni nel mondo, non è un’idealizzazione ingenua e può fare immaginare nuovi percorsi con la visione più lungimirante e integrata di un umanesimo complessivo che deve accompagnare anche nel momento della morte e del riconoscimento del limite. Così  coinvolgimento nella cura diviene relazione e non pura prestazione».

Da qui nascono ulteriori interrogativi. «Come riconoscere, nel percorso di cura, una dimensione spirituale? Come la spiritualità può diventare una risorsa della cura, al pari di altre? Come si può articolare il sistema sanitario in modo che produca una modalità di organizzazione che tenga conto di questi aspetti, ad esempio, regolando i ricoveri e le cure domiciliari? Quale formazione offrire al personale sanitario perché viva questa professionalità? Se c’è un’interpretazione più comprensiva della persona, allora anche la medicina territoriale e di base possono cambiare», conclude l’Arcivescovo.

Parole a cui fa eco, monsignor Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Cei che ha indicato «3 percorsi nel rapporto medico-paziente che è sempre asimmetrico ma che possono recuperare un equilibrio: il rispetto , la relazione come cura qualificando il tema relazionale rispetto alla prestazione e una libertà reciproca di entrambi che accompagni a scelte culturali e vere in una capacità innovativa che non vedo molto circolare oggi». 

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