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Intervista

De Bortoli: «Delpini chiama Milano a diventare capitale del bene comune»

Il giornalista riflette sulle «Sette lettere» dell’Arcivescovo: per non essere inospitale ed escludente, la città deve «sviluppare un grado di apertura capace di immaginare il futuro», senza «specchiarsi nel proprio successo» ed essendo «rigorosa nel campo delle regole»

di Annamaria BRACCINI

6 Novembre 2023
L'Arcivescovo durante la visita pastorale

Ha percorso la città per un anno e mezzo, da gennaio 2022 a giugno 2023, ha visitato parrocchie, ospedali, scuole, realtà sul territorio, «incontrando persone, gruppi, istituzioni, incrociando sguardi e sorrisi», vivendo la città e in città. In quella Milano dove l’Arcivescovo ha compiuto la sua Visita pastorale (vedi qui lo speciale), andando – come dice lui stesso – alla ricerca dell’evangelica moneta perduta, il tesoro prezioso: i segni del regno di Dio tra le strade della metropoli delle donne e degli uomini del terzo millennio. E la lettera, anzi le Sette lettere per Milano, che l’Arcivescovo ha scritto come messaggio conclusivo della Visita (vedi qui la sintesi) sono diventate così una fotografia, tra luci e ombre, di questa benedetta, maledetta città a cui, forse, manca il profilo fondamentale del pensarsi come una comunità pienamente vivibile.

Parte da qui la conversazione sul messaggio di monsignor Delpini con Ferruccio de Bortoli, uno dei giornalisti più noti non solo a livello nazionale, già direttore del Corriere della Sera e de Il Sole24Ore. «L’Arcivescovo mette l’accento sul fatto che Milano è un insieme di città che spesso non comunicano tra loro e questo impedisce il formarsi di una comunità, forse perché Milano si è internazionalizzata, o perché i cittadini si muovono spesso all’interno di un circuito autoreferenziale che li induce a ritenersi estranei rispetto al contesto sociale che li circonda – spiega de Bortoli -. Una comunità è, certo, fatta di eccellenze, ma soprattutto di gente normale, di persone con i propri problemi, che soffrono e che sono sole. Il fatto che Milano si sia specchiata nel proprio successo ci ha fatto dimenticare le tante solitudini e le molte fragilità che l’attraversano».

Monsignor Delpini non demonizza la ricchezza e sottolinea le numerosissime iniziative di solidarietà presenti in città di cui si dice grato. Però avverte – e lo dice con chiarezza – un senso diffuso di scoraggiamento e di tristezza. Anche lei percepisce questo velo di stanchezza che ammanta la città?
Delpini parla di segni di stanchezza, ma soprattutto di un malumore diffuso. E come se, a un certo punto, Milano si fosse stancata del proprio successo e, nello stesso tempo, si fosse accorta del fatto che molti dei suoi primati sono effimeri. Basti l’esempio di una Milano che l’Arcivescovo avvicina a Babilonia: una Milano da bere, come si diceva una volta, fatta di movida. Una città godereccia che si accorge, però, che il successo stanca e che non tutto può essere risolto nelle quotazioni degli immobili che crescono a dismisura, rendendo Milano inospitale soprattutto per i propri cittadini. Una metropoli che tende a espellere le persone che non hanno un reddito adeguato per poterla sostenere e dove anche il ceto medio si sente progressivamente allontanato dal cuore della città che a volte sembra, grazie al successo di molte manifestazioni, una sorta di teatro esclusivo. Ma Milano non è una location e non si può vivere sempre sulla scena, perché viene il momento in cui occorre rendersi conto che c’è anche un proscenio, che esistono dei ridotti, dei magazzini, dei marciapiedi. Però l’Arcivescovo sottolinea, nel riferimento evangelico a Zaccheo, che la città dei ricchi ha anche molte qualità e che c’è una comunità benestante che ha il senso della responsabilità sociale e della solidarietà nei confronti delle persone che sono nel bisogno. Questo è uno dei primati di cui essere e continuare a essere orgogliosi.

Accennando alla solitudine, l’Arcivescovo scrive che «le comunità possono inventare con realismo e intelligenza forme nuove di condivisione degli spazi per evitare lo scandalo di case troppo vuote e di troppe persone senza casa». Secondo lei l’emergenza abitativa, specie in riferimento ai giovani, è una delle priorità da affrontare?
La casa è diventato un bene troppo costoso. Mi colpisce che in queste lettere dell’Arcivescovo sia proprio l’immagine della casa a scandire la nostra modernità. Ma, a ben vedere, la casa è la definizione di un immobile, di qualcosa che resta fermo, mentre dovremmo riflettere su come muoverci e su cosa inventare. Se siamo troppo concentrati sugli immobili, sul loro valore, evidentemente siamo una società statica; tuttavia è chiaro che il tema del costo delle abitazioni sia un elemento decisivo, soprattutto pensando che la Milano città universitaria conta 250 mila studenti. Se coniughiamo tutto questo con l’idea presente nella lettera che i beni condivisi si moltiplicano, possiamo individuare nella condivisione degli spazi una via per il futuro. Se Milano non condivide i pochi spazi che ha diventerà una città sempre più inospitale.

Libro Riccardi
Ferruccio de Bortoli

Appunto la città universitaria, come è considerata a Milano, può fare rete? Ricordo che un famoso Discorso di Sant’Ambrogio – Autorizzati a pensare – chiamava in causa le accademie per dare una nuova anima alla città…
Credo che le università debbano collaborare di più, mettendo in campo un’operazione di alleanza intergenerazionale. Insomma, non basta chiedere spazi e accoglienza, ma si deve anche restituire qualcosa. Pensiamo a cosa ha caratterizzato la storia degli atenei milanesi fino a pochi anni fa: il fatto che ognuna di queste università fosse un mondo a parte. La Bocconi, il Politecnico, la Cattolica, la Statale di fatto erano realtà non comunicanti, eppure si può difendere al meglio l’identità di un’università lavorando insieme come fa il progetto “Musa” promosso dalla Bicocca. Oggi, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha costretto le università a collaborare e, secondo me, potrebbe essere interessante, sulla scorta anche di quello che dice l’Arcivescovo, che tutte loro facessero una proposta unitaria per parlare all’importantissimo mondo del privato sociale e per far sì che gli studenti abbiano una cittadinanza diversa. Sono convinto, per esempio, che Milano dovrebbe dare a tutti gli studenti una tessera per usufruire in maniera agevolata di una serie di servizi e costringere gli esercenti a praticare sconti per i giovani che sono la nostra ricchezza e non solo un problema legato alla movida. È necessario che essi, soprattutto gli stranieri, percepiscano Milano nei suoi valori e non solo nel suo costo, perché altrimenti non comprenderanno tutto ciò che Milano è stata ed è, con la sua storia, i suoi valori, nella sua presenza cattolica e nella dimensione laica. Questa è una grande sfida che le accademie possono accogliere traducendo alcuni degli spunti offerti dalle lettere dell’Arcivescovo.

Nel discorso del Consiglio comunale dello scorso 25 settembre, pubblicato nel testo (vedi qui), Delpini parla di sentinelle e di custodi della città. C’è più bisogno delle une o degli altri?
Ritengo che Milano abbia più bisogno di seminatori del futuro, come peraltro dice lo stesso Arcivescovo, sottolineando che la benedizione è un’alleanza che trasmette sapienza, ma anche fortezza. Fortezza significa, ovviamente, la capacità di essere consci dei propri valori e della propria identità, ma, nello stesso tempo, anche sviluppare un grado di apertura capace di immaginare il futuro, così come è stato nelle stagioni più proficue di Milano e in quelle nelle quali la città è stata la punta di diamante dell’avanguardia italiana nella scienza, nell’arte della finanza e dell’industria. Ora abbiamo bisogno di seminatori di futuro, ma anche di inventori di una diversa socialità e di un diverso modo di capire come Milano possa essere protagonista nel dibattito sui grandi temi della vivibilità, della transizione della socialità, del rapporto tra generazioni diverse. Essere, insomma, una capitale contemporanea non solo nell’uso delle possibilità offerte, ma anche nella condivisione: una capitale del bene comune. Ritengo che le parole dell’Arcivescovo vadano in questa direzione.

Sempre nel discorso al Consiglio comunale l’Arcivescovo mette in guardia dal considerare solo e unicamente la presunta invasione di migranti e indica, invece, il massiccio arrivo a Milano di tanti soldi di provenienza dubbia, legandovi anche la possibilità, nell’allargamento a dismisura della forbice sociale, di un pericolo per la democrazia. Lei vede tale rischio?
Io non condivido fino in fondo la critica al neoliberismo, perché Milano è e deve essere una città competitiva. È chiaro che il mercato si accompagna a delle regole fisse, chiare e dure. Qui, però, si inserisce il tema della legalità e dell’educazione civica, perché oggi siamo certamente meno attenti alle regole di qualche tempo fa. Penso che Milano debba essere più rigorosa proprio nel campo delle regole in modo da essere attrattiva per i capitali che creano valore e non attrattiva come pertugio per le furbizie e le persone che vogliono prendere scorciatoie. C’è un’etica non legale che ha caratterizzato la storia di Milano nel senso di un sentire profondo che fa parte, si potrebbe dire, del diritto naturale della città e dei suoi comportamenti. Esistono nel Dna milanese alcune leggi non scritte e su questo bisogna essere chiari: Milano è il luogo della costruzione e non della scorciatoia legale o finanziaria.

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