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11 febbraio

Benedetto XVI, un anno fa lo scoop

Colloquio confidenziale con Giovanna Chirri, la giornalista dell’Ansa che diede per prima la notizia delle dimissioni, in latino, di papa Ratzinger

di M. Michela NICOLAIS

10 Febbraio 2014
Giovanna Chirri, la cronista dell'Ansa che ha dato la notizia dell'annuncio delle dimissioni del Papa, l'11 febbraio 2013. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Quando ho cominciato a fare questo mestiere, Giovanna c’era. In questi vent’anni, abbiamo condiviso – almeno – un maestro, l’amore per la filosofia e un’idea di giornalismo “con la schiena diritta”, fatto di curiosità e di passione. Quell’11 febbraio, esattamente un anno fa, sono arrivata in redazione (all’agenza Sir siamo una “piccola famiglia”, dobbiamo fare mille cose, la mia presenza in sala stampa vaticana non può essere mai a tempo pieno) e il direttore mi ha detto: «Devi correre in sala stampa, il Papa si è dimesso». «Non è possibile!», è stata la mia prima risposta. Poi ho guardato il dispaccio dell’Ansa, ho visto quella sigla – Chr – a me tanto familiare, e ho capito. Così, subito dopo l’iniziale sconcerto per una rinuncia senza precedenti nella storia della Chiesa, è subentrato l’orgoglio per quella che per me è ben più di una collega: la gioia vera, perché era stata lei la prima al mondo a diffondere la notizia, traducendola dal latino in presa diretta… I tanto vituperati studi classici!

Come ci si sente, un anno dopo? Lo chiedo a Giovanna in questa chiacchierata tra amiche, una delle tante di “mutuo sostegno” che ci facciamo da sempre, da buone vicine di box in sala stampa. «Non è che sia cambiata la mia vita quotidiana, sul lavoro può anche essere peggiorata», risponde con la sua solita, realistica, autoironia: «Quello che è cambiato è il mio atteggiamento. Per carità, per la Chiesa e per la persona di papa Ratzinger il mio “primato” ha un peso quasi inesistente, ma ha avuto un impatto talmente grande che mi ha aiutato a confermarmi in un modo di essere, e di fare la giornalista, che è considerato perdente. Non che rinneghi o volessi rinnegare il passato: anzi, rifarei tutto quello che ho fatto. Ma fino a quell’11 febbraio sembravo don Chisciotte, ed era difficile portare avanti questa lotta. Però la porti avanti lo stesso, perché non sei capace di fare altro, non credi in altro».

L’11 febbraio come “risarcimento”, dunque: «Posso dire che alla fine ho avuto ragione io – conferma Giovanna -:noi giornalisti serviamo ancora a qualcosa». Una giornalista salita alla ribalta del mondo “semplicemente” perché sa fare il suo mestiere, ne conosce l’“abc”: stare sulla notizia, anche “fuori orario”, poter raccontare un fatto che entra nella storia grazie al latino studiato al liceo… «Ci sono tanti miti sulla nostra professione, la realtà è molto più prosaica», osserva Giovanna denunciando un vizio tipico di chi fa informazione oggi: il meccanismo, “molto rischioso”, delle “anticipazioni”, in base al quale «chi scrive sa già cosa accadrà, o meglio presume di sapere tutto con molto anticipo, poi basta un copia-incolla e tutto è già pronto». Insomma, «siamo abituati a un modello di informazione troppo precotto, e finisce che non sappiamo più raccontare quello che vediamo, e di andarlo a vedere». Le “precomprensioni”, insomma, «ci rovinano il bello di ciò che succede»: un po’ come andare a vedere un film già sapendo il finale e conoscendo le battute. Invece, «tra lo schermo e la persona c’è un mediatore culturale, e quello è il giornalista», ricorda Giovanna, che a proposito delle altre ragioni del suo successo – la competenza e la specializzazione – polemizza con la figura dei giornalisti “tuttologi”. «Oggi la specializzazione viene fraintesa, e tradotta come: “tutti devono fare tutto”. È vero che all’occorrenza debba essere così, ma se mi mandassero in uno spogliatoio di calcio per seguire una partita, risponderei che forse so seguire il Papa un po’ meglio». Un esempio per tutti, l’investimento massiccio nel multimediale: «Per le agenzie è il suicidio – commenta Giovanna -: tutte le altre cose le fanno già gli altri, e magari anche meglio. Così finisce che “on line” facciamo tutti le stesse cose, e nessuno fa più il mestiere consumando le suole delle scarpe».

Tornando ai Papi, da noi è molto in voga “interpretarli”, ma i Papi si difendono da soli, come Giovanna spiega bene nel suo libro “L’ultima parola”: «Ratzinger – ci dice – all’inizio è stato vittima di un pregiudizio negativo, e alla fine il gesto della rinuncia ha portato molti a comprenderne la grandezza. Per papa Francesco, che ha cominciato il pontificato in maniera trionfante, il rischio potrebbe essere quello opposto, che diventi vittima di un pregiudizio positivo». L’antidoto a qualunque “incasellamento” è proprio il racconto, e in questo le agenzie sono maestre: «Papa Francesco ci aiuta molto, la sua immediata simpatia e carica comunicativa può essere sfruttata in positivo e diventare l’occasione per una comunicazione seria, fatta per bene, a partire dai fatti».

Cosa ti resta di papa Ratzinger, un anno dopo? La breve pausa di silenzio di Giovanna mi fa intuire che sarebbero tante, forse troppe, le cose da dire. D’istinto, risponde: le catechesi del mercoledì. «Ero in un momento della mia vita in cui tutto il resto mi interessava poco. Stare lì a seguirle mi ha dato tantissimo: io ammiro molto l’intelligenza, e papa Ratzinger è molto intelligente». Semplicità e profondità: un altro binomio che appartiene di diritto al Papa emerito: «Quando ho perso mia figlia Flavietta, il Papa mi ha chiesto cosa era successo, e poi mi ha detto: “Pregherò per lei”. In questo mondo così caotico, sembra che le cose abbiano senso solo se sono complicate. La realtà è complessa, ma le cose vere non devono essere complicate per forza. Ci sono cose vecchie che valgono sempre: sono gli ingredienti della vita, che sono anche gli ingredienti del giornalismo».